Il mistero del male
Benedetto XVI e la fine dei tempi
Compiendo il ‘gran rifiuto’, Benedetto XVI ha dato prova non di viltà, ma di un coraggio che acquista oggi un senso e un valore esemplari. La sua decisione richiama con forza l’attenzione sulla distinzione fra due principi essenziali della nostra tradizione etico-politica, di cui le nostre società sembrano aver perduto ogni consapevolezza: la legittimità e la legalità. Se la crisi che la nostra società sta attraversando è così profonda e grave, è perché essa non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità; non soltanto, come si ripete troppo spesso, le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e legittima.
Il ‘mistero del male’, di cui parla l’apostolo Paolo, non è un cupo dramma teologico che trattiene la fine dei tempi e paralizza e rende enigmatica e ambigua ogni azione, ma un dramma storico in cui l’Ultimo Giorno coincide col presente e in cui ciascuno è chiamato a fare senza riserve e senza ambiguità la sua parte.
Il ‘mistero del male’, di cui parla l’apostolo Paolo, non è un cupo dramma teologico che trattiene la fine dei tempi e paralizza e rende enigmatica e ambigua ogni azione, ma un dramma storico in cui l’Ultimo Giorno coincide col presente e in cui ciascuno è chiamato a fare senza riserve e senza ambiguità la sua parte.
L’utopia comunista ha bisogno di santi, Agamben ha trovato
B-XVI di Alfonso Berardinelli @ Il Foglio, 29 maggio 2013
B-XVI di Alfonso Berardinelli @ Il Foglio, 29 maggio 2013
Cercherò di riassumere, per quanto mi è possibile e in breve, il chiarimento teologico-politico che Giorgio Agamben ci ha offerto nel suo saggio “Il mistero del male. Bendetto XVI e la fine dei tempi” (Laterza, 67 pp., euro 7). Agamben, come sanno i suoi lettori, oltre che il nostro maggiore editore e studioso di Walter Benjamin, è un pensatore politico internazionalmente noto per la sua originalità, nonché un profondo conoscitore della teologia cristiana. E della teologia (come suggerì Benjamin) non ha mai sottovalutato il contenuto storico e politico, la sua pervasiva benché sotterranea influenza sulla cultura laica moderna. L’erudizione teologica viene usata da Agamben per mostrare, rivelare le tracce di una presenza culturale rimossa dal pensiero illuministico, eppure tuttora attiva nelle forme in cui ci si presenta oggi la crisi del mondo contemporaneo.
Perciò, se importa chiarire il significato teologico e politico della rinuncia di papa Ratzinger, è perché tanto nella chiesa quanto nella società attuale viene vissuto, secondo Agamben, un medesimo “dramma storico”, nel quale si oppongono Cristo e Anticristo, economia ed escatologia, diritto formale e giustizia sostanziale, legalità e legittimità.
Nell’ultimo paragrafo del primo saggio, “Il mistero della chiesa”, Agamben scrive: “Abbiamo cercato di interpretare l’esemplarità del gesto di Benedetto XVI nel contesto teologico e ecclesiologico che le è proprio. Ma se questo gesto ci interessa, non è certo soltanto nella misura in cui rimanda a un problema interno alla chiesa, quanto piuttosto perché esso permette di mettere a fuoco un tema genuinamente politico, quello della giustizia che, al pari della legittimità, non può essere eliminato dalla prassi della nostra società. Noi sappiamo perfettamente che anche il corpo della nostra società politica è, come quello della chiesa e forse ancora più gravemente, bipartito, commisto di male e di bene, di crimine e di onestà, di ingiustizia e giustizia. E tuttavia, nella prassi delle democrazie moderne, questo non è un problema politico e sostanziale, ma giuridico e procedurale. Anche qui, come è avvenuto per il problema della legittimità, esso viene liquidato sul piano delle norme che vietano e puniscono, salvo dover poi constatare che la bipartizione del corpo sociale diventa ogni giorno più profonda. Nella prospettiva dell’ideologia liberista oggi dominante, il paradigma del mercato autoregolantesi si è sostituito a quello della giustizia e si finge di poter governare una società sempre più ingovernabile secondo criteri esclusivamente tecnici”.
Perciò, se importa chiarire il significato teologico e politico della rinuncia di papa Ratzinger, è perché tanto nella chiesa quanto nella società attuale viene vissuto, secondo Agamben, un medesimo “dramma storico”, nel quale si oppongono Cristo e Anticristo, economia ed escatologia, diritto formale e giustizia sostanziale, legalità e legittimità.
Nell’ultimo paragrafo del primo saggio, “Il mistero della chiesa”, Agamben scrive: “Abbiamo cercato di interpretare l’esemplarità del gesto di Benedetto XVI nel contesto teologico e ecclesiologico che le è proprio. Ma se questo gesto ci interessa, non è certo soltanto nella misura in cui rimanda a un problema interno alla chiesa, quanto piuttosto perché esso permette di mettere a fuoco un tema genuinamente politico, quello della giustizia che, al pari della legittimità, non può essere eliminato dalla prassi della nostra società. Noi sappiamo perfettamente che anche il corpo della nostra società politica è, come quello della chiesa e forse ancora più gravemente, bipartito, commisto di male e di bene, di crimine e di onestà, di ingiustizia e giustizia. E tuttavia, nella prassi delle democrazie moderne, questo non è un problema politico e sostanziale, ma giuridico e procedurale. Anche qui, come è avvenuto per il problema della legittimità, esso viene liquidato sul piano delle norme che vietano e puniscono, salvo dover poi constatare che la bipartizione del corpo sociale diventa ogni giorno più profonda. Nella prospettiva dell’ideologia liberista oggi dominante, il paradigma del mercato autoregolantesi si è sostituito a quello della giustizia e si finge di poter governare una società sempre più ingovernabile secondo criteri esclusivamente tecnici”.
Queste deduzioni hanno il pregio della chiarezza, della semplicità e della radicalità dottrinale. Male e bene convivono e si oppongono nella chiesa come nella società capitalistica. Il gesto esemplare di rinuncia compiuto da Ratzinger ha voluto rendere il più possibile evidente l’esigenza di marcare l’opposizione fra ciò che nella chiesa appartiene al mondo e al suo dominatore Satana e ciò che appartiene a Cristo. La chiesa nasce e vive nel mondo, ma non appartiene al mondo. La sua “economia” non può sovrastare e sopprimere la sua “escatologia”, cioè il manifestarsi nella coscienza morale di un tempo messianico che non è “l’ultimo giorno” e la “fine del tempo”, ma “che è in corso per così dire in ogni istante”.
Ratzinger dimissionario, dunque, come “figura” teologica ed ecclesiologica di una rivoluzione sociale legittima. Non si può a questo punto non pensare al “tempo-ora” di Benjamin, al suo messianismo rivoluzionario, alla sua idea di un’interruzione del continuum storico e del progressismo riformista che frenano e paralizzano l’avvento della giustizia.
Agamben procede con ogni cautela filologica quando si tratta di esegesi teologica e quando ricorda le tappe della vicenda intellettuale di Ratzinger, a partire dalla sua interpretazione giovanile di un testo del grande teologo Ticonio, attivo nel IV secolo in Africa, fino al suo discorso del 28 aprile 2009 a L’Aquila sulla tomba di Celestino V, che secondo Dante fece “per viltade il gran rifiuto”. Mi sembra però che nel passaggio dall’ecclesiologia al messianismo politico Agamben non si mostri altrettanto cauto. In termini teologici si può credere di sapere cos’è Cristo e cosa l’Anticristo, ma in termini sociali e politici la “bipartizione del corpo sociale” che “diventa ogni giorno più profonda” è molto meno chiara. I rapporti fra legalità, economia, legittimità politica, giustizia sociale, prassi e potere rivoluzionari sono stati il problema tragicamente irrisolto dal 1789 ai comunismi del XX secolo. Sulla teoria della rivoluzione e sull’avvento della giustizia Agamben resta piuttosto reticente. Nella sua strategia argomentativa attuale mi sembra che venga compiuto un rovesciamento del rapporto che Benjamin istituì tra teologia e materialismo storico in una delle sue più note “Tesi di filosofia della storia”. Alla fine degli anni Trenta, secondo Benjamin, la teologia era culturalmente impresentabile e doveva restare nascosta per manovrare l’armamentario concettuale del marxismo, allora in voga. Oggi succede il contrario. La teologia ha vinto, sembra aver conquistato e colonizzato i comunisti utopico-rivoluzionari. Perciò Agamben può essere del tutto esplicito e filologicamente documentato finché parla da teologo, ma deve mantenere velata una poco presentabile utopia comunista, per sostenere la quale si è da tempo sprovvisti di teoria. Così viene delegata al clamoroso gesto dimissionario di un Papa la responsabilità morale e teologica di alludere alla perenne attualità della rivoluzione come “parusia”, come avvento del bene essenziale o del regno di Dio nel mondo.
Ratzinger dimissionario, dunque, come “figura” teologica ed ecclesiologica di una rivoluzione sociale legittima. Non si può a questo punto non pensare al “tempo-ora” di Benjamin, al suo messianismo rivoluzionario, alla sua idea di un’interruzione del continuum storico e del progressismo riformista che frenano e paralizzano l’avvento della giustizia.
Agamben procede con ogni cautela filologica quando si tratta di esegesi teologica e quando ricorda le tappe della vicenda intellettuale di Ratzinger, a partire dalla sua interpretazione giovanile di un testo del grande teologo Ticonio, attivo nel IV secolo in Africa, fino al suo discorso del 28 aprile 2009 a L’Aquila sulla tomba di Celestino V, che secondo Dante fece “per viltade il gran rifiuto”. Mi sembra però che nel passaggio dall’ecclesiologia al messianismo politico Agamben non si mostri altrettanto cauto. In termini teologici si può credere di sapere cos’è Cristo e cosa l’Anticristo, ma in termini sociali e politici la “bipartizione del corpo sociale” che “diventa ogni giorno più profonda” è molto meno chiara. I rapporti fra legalità, economia, legittimità politica, giustizia sociale, prassi e potere rivoluzionari sono stati il problema tragicamente irrisolto dal 1789 ai comunismi del XX secolo. Sulla teoria della rivoluzione e sull’avvento della giustizia Agamben resta piuttosto reticente. Nella sua strategia argomentativa attuale mi sembra che venga compiuto un rovesciamento del rapporto che Benjamin istituì tra teologia e materialismo storico in una delle sue più note “Tesi di filosofia della storia”. Alla fine degli anni Trenta, secondo Benjamin, la teologia era culturalmente impresentabile e doveva restare nascosta per manovrare l’armamentario concettuale del marxismo, allora in voga. Oggi succede il contrario. La teologia ha vinto, sembra aver conquistato e colonizzato i comunisti utopico-rivoluzionari. Perciò Agamben può essere del tutto esplicito e filologicamente documentato finché parla da teologo, ma deve mantenere velata una poco presentabile utopia comunista, per sostenere la quale si è da tempo sprovvisti di teoria. Così viene delegata al clamoroso gesto dimissionario di un Papa la responsabilità morale e teologica di alludere alla perenne attualità della rivoluzione come “parusia”, come avvento del bene essenziale o del regno di Dio nel mondo.
Il «Mistero del male» di Giorgio Agamben
Fuga dal tempo del dominio
Di Paolo Vernaglione @ Il Manifesto, 29 maggio 2013
Fuga dal tempo del dominio
Di Paolo Vernaglione @ Il Manifesto, 29 maggio 2013
Una riflessione del filosofo italiano sulle dialettiche irrisolte della teologia politica a partire dalle dimissioni di Benedetto XVI
Il materialista storico lo sa, che ognuno è dotato di una debole forza messianica, un’esigenza che non si lascia soddisfare facilmente. Parafrasando il Benjamin della seconda delle Tesi di filosofia della storia, possiamo agevolmente leggere le riflessioni di Giorgio Agamben sulle dimissioni di Papa Bendetto XVI nel Mistero del male (Laterza, euro 7) in cui il primo mistero è contenuto. Il breve e denso testo raccoglie una conferenza tenuta a Friburgo nel 2012 per il conferimento della laurea honoris causa in teologia e un commento al «gran rifiuto» di papa Ratzinger. Il fulcro della tesi di Agamben, che da tempo ha aperto un produttivo campo di indagine sul dispositivo politico del messianesimo, sulla scorta dell’insegnamento di Jacob Taubes, in II tempo che resta, e soprattutto sul rapporto tra regole e prassi, (Opus Dei) e oekonomia e escatologia (La Chiesa e il Regno), è che il gesto di Benedetto XVI si inscrive in quella temperie epocale chiamata presente, che è delimitata da due figure, entrambe decisive per capirne l’ontologia: il katechon (ciò che trattiene) e il messìa (colui che viene nel tempo-ora). Diversamente dall’interpretazione teologico-politica che Carl Schmitt ha reso popolare e seducente, a partire da Agostino si fa strada una lettura del katechon che rimette in asse il dramma del tempo presente come tempo della fine, sganciandolo dall’evocazione della fine dei tempi, in cui una post-storia avrebbe compiuto tutta la prassi possibile, derivandone un tempo dell’inanità di ogni azione innovativa o trasformativa.
Questa seconda linea di lettura era in realtà già operante nelle interpretazioni patristiche che individuano il potere che frena nell’impero e addirittura in Nerone quale personificazione del male assoluto. Sulla base della geniale teologia delle regole di Ticonio nel IV secolo, studiata peraltro da Ratzinger, che prevede il corpo bipartito del Signore e della chiesa (insieme malvagia e onesta), il katechon è uno degli elementi del «mistero dell’iniquità», l’altro essendo la venuta del messìa, preceduta dalla rivelazione dell’anticristo; ma attenzione: mistero non significa opera nascosta, bensì azione drammatica, teatro liturgico; iniquità è la brutta traduzione religiosa di anomìa e l’anticristo non è ciò che si oppone al Cristo, bensì ciò che gli è simile e che si afferma quindi come menzogna, male storico, economico, dentro e non fuori dal teatro escatologico della temporalità. Agamben sposta la figura del katechon da elemento esterno e astratto, figura immobile di una teologia politica che si oppone al male radicale, a forza interna alla chiesa e al mondo, al pari del male radicale. L’errore teologico e politico di considerare il trattenimento e il male come poli di una dialettica del tempo lineare, che si risolvono nella venuta del messìa, sulla scorta della dismissione dell’escatologia sia dal tempo mondano che da quello liturgico — ha consentito una filosofia della prassi reazionaria che, da Carl Schmitt a oggi ha di fatto giustificato la conservazione, il trattenimento della potenza umana di sovversione, in vista di una salvifico e destinale «sol dell’avvenire».
L’abdicazione di papa Ratzinger segna invece il tempo presente mostrando l’anticristo dentro la chiesa e dentro lo Stato e allude ad una prassi in cui il tempo del «già» e del «non ancora», lungi dall’essere separati convivono nell’umana facoltà di linguaggio. Essa, con Benjamin, è naturalmente messianica. Agamben rompe sia con le pretese proceduraliste delle democrazie liberali, ormai illegali, che con le elucubrazioni dialettico-sovraniste e stataliste fondate su una presunta legittimità pura di istituzioni che «trattengono» il male. Si tratta invece di stare dentro il dramma escatologico di questo presente, inventando quotidianamente una prassi che non può se non provenire da una facoltà dispiegata di linguaggio in cui il passato metastorico si risolve nella storica realtà del presente.
Artist: Stelios Faitakis: Read and See more
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