Intervista di Lapo Berti su "Masse, potere e post-democrazia nel XXI secolo" a cura dei blog Obsolete Capitalism e Rizomatika. Intervista raccolta il 19 Novembre 2013.
EDIT:Abbiamo raccolto l'intervista
di Lapo Berti in questo PDF. Tutte
le interviste sul populismo
digitale sono state raccolte
nell'e.book intitolato "Nascita
del populismo digitale. Masse,
potere e postdemocrazia nel XXI
secolo" disponibile per la lettura
e scaricabile gratuitamente QUI
di Lapo Berti in questo PDF. Tutte
le interviste sul populismo
digitale sono state raccolte
nell'e.book intitolato "Nascita
del populismo digitale. Masse,
potere e postdemocrazia nel XXI
secolo" disponibile per la lettura
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Masse, potere e postdemocrazia nel XXI secolo
'Fascismo di banda, di gang, di setta, di famiglia, di villaggio, di quartiere, d’automobile, un Fascismo che non risparmia nessuno. Soltanto il micro-Fascismo può fornire una risposta alla domanda globale: “Perchè il desiderio desidera la propria repressione? Come può desiderare la propria repressione?'
—Gilles Deleuze, Fèlix Guattari, Mille Piani, pg. 271
Il ritorno delle élite Ormai da lungo tempo, non solo in Italia, il potere di governo è stato stabilmente requisito da gruppi elitari che derivano la loro forza dal possesso di un potere dominante in ambito economico, politico e sociale. Tali gruppi, generalmente interconnessi e caratterizzati da una considerevole scambiabilità delle posizioni che contribuisce alla loro stabilità nel tempo, formano un'oligarchia che ha nella finanza il proprio strumento fondamentale nonché il proprio legame fondante.
Per capire fino in fondo la portata di questo processo, è necessario rendersi conto che la globalizzazione non è il risultato spontaneo della dinamica dei mercati, come spesso si sostiene, ma è l'approdo consapevolmente perseguito dalle élite economiche mondiali per sottrarsi alle possibili interferenze della politica, ai vincoli e ai limiti posti dalle giurisdizioni nazionali, in cui si esprime il vecchio e obsoleto potere degli stati. La globalizzazione è, prima di tutto, la creazione di uno spazio esente dalla politica e dal diritto, in cui l'oligarchia finanziaria può liberamente dispiegare i suoi disegni di ricchezza e di potere. La globalizzazione è il risultato estremo di una guerra che si è combattuta lungo tutto il novecento tra chi voleva costruire un controllo della politica, in nome e per conto della collettività, sul mondo dell'economia e della finanza e le élite economiche che perseguivano con energia e pervicacia il ritorno al mondo pre-crisi del laissez-faire. La cesura era stata rappresentata dal New Deal rooseveltiano e dal trentennio del compromesso socialdemocratico, seguito alla seconda guerra mondiale e ispirato alla dottrina keynesiana. Il tentativo era quello di rendere possibile la convivenza fra democrazia e capitalismo, facendo dello stato il regolatore di ultima istanza dei conflitti sociali attraverso lo strumento del welfare pubblico. Fin dall'inizio, questa svolta, imposta dal trauma della Grande crisi, era stata percepita, almeno da una parte delle élite capitalistiche mondiali, come una deriva pericolosa, in grado di mettere a repentaglio la sopravvivenza del sistema capitalistico. E fin da subito erano stati posti in essere progetti di revanche, concretizzatisi con il trentennio neo-liberale e culminati nel grandioso progetto della globalizzazione.
Questo è il risultato, oggi confermatosi a livello globale con la formazione di un'oligarchia globale occulta, di un lungo processo che ha visto la formazione e l'affermazione del potere delle élite in tutti gli ambiti della vita sociale. Questo processo, di cui non mancano i segni lungo tutto il periodo che ha visto diffondersi la democrazia in tutto il mondo, ha avuto inizio in concomitanza con la prima grande ondata di democratizzazione che si è avuta come reazione alla crisi del '29, nella misura in cui questa fu percepita come la chiara manifestazione dei limiti intrinseci al capitalismo del laissez-faire. Dal momento in cui fu chiaro che i vertici del capitalismo mondiale, a partire da quelli americani, erano sotto attacco, hanno preso forma iniziative volte a realizzare una linea di resistenza contro le "eccessive" pretese della democrazia ovvero contro il progetto di porre sotto controllo l'iniziativa capitalistica, soprattutto quella incarnata nelle grandi organizzazioni del capitalismo industriale e, soprattutto, finanziario.
In tutto l'occidente i partiti politici sono stati risucchiati dal processo di penetrazione sociale delle élite e si sono trasformati in gangli del potere elitario, trasformandosi essi stessi in potenti élite, depositarie del potere conferito, nelle democrazie rappresentative, dal voto dei cittadini, e abilitate a esercitare il potere di governo per conto e nell'interesse delle élite capitalistiche in cambio di una partecipazione al potere economico e al godimento della ricchezza che esso maneggia.
La degenerazione dei sistemi democratici è stata prodotta e sospinta dall'assoggettamento dei gruppi dirigenti dei partiti alle strategie delle élite economiche. I partiti, anche quelli popolari, di massa, si sono rivelati permeabili, attraverso i loro gruppi dirigenti, al potere economico e finanziario. La corruzione si è installata stabilmente nel panorama politico, quale strumento di perversione dei meccanismi democratici in favore degli interessi delle élite dominanti.
La risposta dei cittadini ha assunto varie forme. La principale è stata quella di un allontanamento dal voto, sempre più percepito come un atto inutile se non addirittura ridicolo di fronte all'impermeabilità di un mondo politico divenuto del tutto autoreferenziale. Si tende, generalmente, a considerare lo sciopero del voto come un allontanamento dalla politica. Non è detto. Può essere anche il prodotto di una consapevolezza politica superiore alla media che più rapidamente e più nettamente sfocia nello scetticismo. Per il funzionamento della democrazia il risultato non cambia. Quando si comincia a votare con i piedi, perché non c'è più la speranza di far udire la propria voce, vuol dire che qualcosa si è irrimediabilmente rotto nel meccanismo della rappresentanza. E quando, com'è nel caso delle ultime elezioni italiane, l'astensione sfiora la metà degli aventi diritto vuol dire che la rottura è grave e che è assai improbabile che sia reversibile nel breve periodo.
La seconda reazione è ancora più insidiosa, perché tende a trasformare e addirittura a snaturare l'intero ethos democratico. È la risposta populista, che assume sempre connotati conservatori e antidemocratici, se non reazionari, anche quando le sue radici si allungano nel terreno della sinistra. Il populismo diventa una prospettiva praticabile quando si crea un vuoto incolmabile nella relazione fra le aspettative, i bisogni, dei cittadini e la vita politica che trova espressione nell'astensione dal voto, nella rinuncia a partecipare a quello che viene ormai percepito come un rituale vuoto: la delega ai rappresentanti del popolo. Il populismo si fa strada allorché i cittadini perdono la speranza di poter essere protagonisti della vita democratica e si rifugiano nella ricerca di un surrogato che rappresenti le loro aspirazioni e che generalmente assume le sembianze di una figura salvifica,di un personaggio che s'impone per le sue capacità di comunicazione, esaltate o addirittura costruite dai mass media.
In Italia abbiamo oggi due populismi, molto diversi in superficie, ma sostanzialmente omogenei dal punto di vista delle pulsioni che li alimentano e delle conseguenze sociali e politiche che provocano. Sono entrambi figli della crisi della politica novecentesca, fondata sulla capacità dei grandi partiti di massa di rispecchiare e rappresentare la composizione sociale generata dal fordismo. I partiti tradizionali si sono trasformati in senso oligarchico, sono diventati autoreferenziali, rivolti alla riproduzione di una classe dirigente inamovibile. Quel più conta, gli interessi dei diversi gruppi sociali sono passati in secondo piano, sostituiti da una fitta rete di rapporti clientelari. È venuta meno, in larghi strati della popolazione, la fiducia che dai partiti possa venire la soluzione dei problemi sociali. I riti della politica politicante sono divenuti per i più un gioco astruso. Si è andati alla ricerca di scorciatoie, di soluzioni dirette e semplificate. Era pronto il terreno per l'avvento dei taumaturghi, con la finzione di un rapporto diretto con il popolo e con la disponibilità a farsi dettare l'agenda da quello che si muove nella sua pancia, attraverso il gioco dei sondaggi o l'illusione della democrazia via web. Sotto questo profilo, Grillo e Berlusconi sono identici. Paradossalmente, ambedue, con il trucco più antico del mondo, hanno intercettato, in mezzo a paure e rabbie primordiali, una volontà effettiva di cambiamento, di modernizzazione del paese, ma l'hanno piegata a fini di affermazione personale. Di impulsi originariamente animati da uno spirito riformatore hanno fatto gli strumenti di un'operazione di conservazione, intrappolandoli nel recinto dei populismi e nell'attesa messianica dell'uomo solo che salva e risolve.
Una qualche spinta verso esiti populistici è probabilmente insita nel tipo di società che sono state forgiate dai processi di globalizzazione. Il disagio che afferra milioni di persone nel momento in cui percepiscono che la loro vita non dipende più soltanto da relazioni tutto sommato di vicinato, ma da quello che fanno e decidono milioni di sconosciuti sparsi nei luoghi più diversi e lontani del pianeta, l'angoscia che ne deriva rispetto a un destino di cui non ci sente più padroni perché sono venuti meno gli strumenti con i quali pensavamo/ci illudevamo di controllarlo e che appare minacciato da forze esterne e oscure, la sensazione d'impotenza che si prova di fronte a un mondo fattosi troppo complesso: tutte queste pulsioni confluiscono in una generalizzata quanto irriflessa richiesta di semplificazione. E qui, di nuovo, ricompare il populismo, con la sua offerta di allettanti scorciatoie, con l'illusione di poter delegare a qualcuno la soluzione di tutti i problemi in cambio di un'adesione viscerale, fideistica, che fa a meno del ragionamento politico e dell'impegno consapevole degli individui. In questo senso, i populismi sono sempre di destra, antidemocratici.
Sul micro-fascismo
OC Partiamo dall’analisi di Wu Ming, esposta nel breve saggio per la London Review of Books intitolato “Yet another right-wing cult coming from Italy”, che legge il M5S e il fenomeno Grillo come un nuovo movimento autoritario di destra. Come è possibile che il desiderio di cambiamento di buona parte del corpo elettorale sia stato vanificato e le masse abbiano di nuovo anelato - ancora una volta - la propria repressione ? Siamo fermi nuovamente all’affermazione di WilhelmReich: sì, le masse hanno desiderato, in un determinato momento storico, il fascismo. Le masse non sono state ingannate, hanno capito molto bene il pericolo autoritario, ma l’hanno votato lo stesso. E il pensiero doppiamente preoccupante è il seguente: i due movimenti populisti autoritari, M5S e PdL, sommati insieme hanno più del 50% dell’elettorato italiano. Le tossine dell’autoritarismo e del micro-fascismo perché e quanto sono presenti nella società italiana contemporanea ?
Il ritorno delle élite Ormai da lungo tempo, non solo in Italia, il potere di governo è stato stabilmente requisito da gruppi elitari che derivano la loro forza dal possesso di un potere dominante in ambito economico, politico e sociale. Tali gruppi, generalmente interconnessi e caratterizzati da una considerevole scambiabilità delle posizioni che contribuisce alla loro stabilità nel tempo, formano un'oligarchia che ha nella finanza il proprio strumento fondamentale nonché il proprio legame fondante.
Per capire fino in fondo la portata di questo processo, è necessario rendersi conto che la globalizzazione non è il risultato spontaneo della dinamica dei mercati, come spesso si sostiene, ma è l'approdo consapevolmente perseguito dalle élite economiche mondiali per sottrarsi alle possibili interferenze della politica, ai vincoli e ai limiti posti dalle giurisdizioni nazionali, in cui si esprime il vecchio e obsoleto potere degli stati. La globalizzazione è, prima di tutto, la creazione di uno spazio esente dalla politica e dal diritto, in cui l'oligarchia finanziaria può liberamente dispiegare i suoi disegni di ricchezza e di potere. La globalizzazione è il risultato estremo di una guerra che si è combattuta lungo tutto il novecento tra chi voleva costruire un controllo della politica, in nome e per conto della collettività, sul mondo dell'economia e della finanza e le élite economiche che perseguivano con energia e pervicacia il ritorno al mondo pre-crisi del laissez-faire. La cesura era stata rappresentata dal New Deal rooseveltiano e dal trentennio del compromesso socialdemocratico, seguito alla seconda guerra mondiale e ispirato alla dottrina keynesiana. Il tentativo era quello di rendere possibile la convivenza fra democrazia e capitalismo, facendo dello stato il regolatore di ultima istanza dei conflitti sociali attraverso lo strumento del welfare pubblico. Fin dall'inizio, questa svolta, imposta dal trauma della Grande crisi, era stata percepita, almeno da una parte delle élite capitalistiche mondiali, come una deriva pericolosa, in grado di mettere a repentaglio la sopravvivenza del sistema capitalistico. E fin da subito erano stati posti in essere progetti di revanche, concretizzatisi con il trentennio neo-liberale e culminati nel grandioso progetto della globalizzazione.
Questo è il risultato, oggi confermatosi a livello globale con la formazione di un'oligarchia globale occulta, di un lungo processo che ha visto la formazione e l'affermazione del potere delle élite in tutti gli ambiti della vita sociale. Questo processo, di cui non mancano i segni lungo tutto il periodo che ha visto diffondersi la democrazia in tutto il mondo, ha avuto inizio in concomitanza con la prima grande ondata di democratizzazione che si è avuta come reazione alla crisi del '29, nella misura in cui questa fu percepita come la chiara manifestazione dei limiti intrinseci al capitalismo del laissez-faire. Dal momento in cui fu chiaro che i vertici del capitalismo mondiale, a partire da quelli americani, erano sotto attacco, hanno preso forma iniziative volte a realizzare una linea di resistenza contro le "eccessive" pretese della democrazia ovvero contro il progetto di porre sotto controllo l'iniziativa capitalistica, soprattutto quella incarnata nelle grandi organizzazioni del capitalismo industriale e, soprattutto, finanziario.
In tutto l'occidente i partiti politici sono stati risucchiati dal processo di penetrazione sociale delle élite e si sono trasformati in gangli del potere elitario, trasformandosi essi stessi in potenti élite, depositarie del potere conferito, nelle democrazie rappresentative, dal voto dei cittadini, e abilitate a esercitare il potere di governo per conto e nell'interesse delle élite capitalistiche in cambio di una partecipazione al potere economico e al godimento della ricchezza che esso maneggia.
La degenerazione dei sistemi democratici è stata prodotta e sospinta dall'assoggettamento dei gruppi dirigenti dei partiti alle strategie delle élite economiche. I partiti, anche quelli popolari, di massa, si sono rivelati permeabili, attraverso i loro gruppi dirigenti, al potere economico e finanziario. La corruzione si è installata stabilmente nel panorama politico, quale strumento di perversione dei meccanismi democratici in favore degli interessi delle élite dominanti.
La risposta dei cittadini ha assunto varie forme. La principale è stata quella di un allontanamento dal voto, sempre più percepito come un atto inutile se non addirittura ridicolo di fronte all'impermeabilità di un mondo politico divenuto del tutto autoreferenziale. Si tende, generalmente, a considerare lo sciopero del voto come un allontanamento dalla politica. Non è detto. Può essere anche il prodotto di una consapevolezza politica superiore alla media che più rapidamente e più nettamente sfocia nello scetticismo. Per il funzionamento della democrazia il risultato non cambia. Quando si comincia a votare con i piedi, perché non c'è più la speranza di far udire la propria voce, vuol dire che qualcosa si è irrimediabilmente rotto nel meccanismo della rappresentanza. E quando, com'è nel caso delle ultime elezioni italiane, l'astensione sfiora la metà degli aventi diritto vuol dire che la rottura è grave e che è assai improbabile che sia reversibile nel breve periodo.
La seconda reazione è ancora più insidiosa, perché tende a trasformare e addirittura a snaturare l'intero ethos democratico. È la risposta populista, che assume sempre connotati conservatori e antidemocratici, se non reazionari, anche quando le sue radici si allungano nel terreno della sinistra. Il populismo diventa una prospettiva praticabile quando si crea un vuoto incolmabile nella relazione fra le aspettative, i bisogni, dei cittadini e la vita politica che trova espressione nell'astensione dal voto, nella rinuncia a partecipare a quello che viene ormai percepito come un rituale vuoto: la delega ai rappresentanti del popolo. Il populismo si fa strada allorché i cittadini perdono la speranza di poter essere protagonisti della vita democratica e si rifugiano nella ricerca di un surrogato che rappresenti le loro aspirazioni e che generalmente assume le sembianze di una figura salvifica,di un personaggio che s'impone per le sue capacità di comunicazione, esaltate o addirittura costruite dai mass media.
In Italia abbiamo oggi due populismi, molto diversi in superficie, ma sostanzialmente omogenei dal punto di vista delle pulsioni che li alimentano e delle conseguenze sociali e politiche che provocano. Sono entrambi figli della crisi della politica novecentesca, fondata sulla capacità dei grandi partiti di massa di rispecchiare e rappresentare la composizione sociale generata dal fordismo. I partiti tradizionali si sono trasformati in senso oligarchico, sono diventati autoreferenziali, rivolti alla riproduzione di una classe dirigente inamovibile. Quel più conta, gli interessi dei diversi gruppi sociali sono passati in secondo piano, sostituiti da una fitta rete di rapporti clientelari. È venuta meno, in larghi strati della popolazione, la fiducia che dai partiti possa venire la soluzione dei problemi sociali. I riti della politica politicante sono divenuti per i più un gioco astruso. Si è andati alla ricerca di scorciatoie, di soluzioni dirette e semplificate. Era pronto il terreno per l'avvento dei taumaturghi, con la finzione di un rapporto diretto con il popolo e con la disponibilità a farsi dettare l'agenda da quello che si muove nella sua pancia, attraverso il gioco dei sondaggi o l'illusione della democrazia via web. Sotto questo profilo, Grillo e Berlusconi sono identici. Paradossalmente, ambedue, con il trucco più antico del mondo, hanno intercettato, in mezzo a paure e rabbie primordiali, una volontà effettiva di cambiamento, di modernizzazione del paese, ma l'hanno piegata a fini di affermazione personale. Di impulsi originariamente animati da uno spirito riformatore hanno fatto gli strumenti di un'operazione di conservazione, intrappolandoli nel recinto dei populismi e nell'attesa messianica dell'uomo solo che salva e risolve.
Una qualche spinta verso esiti populistici è probabilmente insita nel tipo di società che sono state forgiate dai processi di globalizzazione. Il disagio che afferra milioni di persone nel momento in cui percepiscono che la loro vita non dipende più soltanto da relazioni tutto sommato di vicinato, ma da quello che fanno e decidono milioni di sconosciuti sparsi nei luoghi più diversi e lontani del pianeta, l'angoscia che ne deriva rispetto a un destino di cui non ci sente più padroni perché sono venuti meno gli strumenti con i quali pensavamo/ci illudevamo di controllarlo e che appare minacciato da forze esterne e oscure, la sensazione d'impotenza che si prova di fronte a un mondo fattosi troppo complesso: tutte queste pulsioni confluiscono in una generalizzata quanto irriflessa richiesta di semplificazione. E qui, di nuovo, ricompare il populismo, con la sua offerta di allettanti scorciatoie, con l'illusione di poter delegare a qualcuno la soluzione di tutti i problemi in cambio di un'adesione viscerale, fideistica, che fa a meno del ragionamento politico e dell'impegno consapevole degli individui. In questo senso, i populismi sono sempre di destra, antidemocratici.
- 1919, 1933, 2013. Sulla crisi
OC Slavoj Zizek ha affermato, già nel 2009, che quando il corso normale delle cose è traumaticamente interrotto, si apre nella società una competizione ideologica “discorsiva” esattamente come capitò nella Germania dei primi anni ’30 del Novecento quando Hitler indicò nella cospirazione ebraica e nella corruzione del sistema dei partiti i motivi della crisi della repubblica di Weimar. Zizek termina la riflessione affermando che ogni aspettativa della sinistra radicale di ottenere maggiori spazi di azione e quindi consenso risulterà fallace in quanto saranno vittoriose le formazioni populiste e razziste, come abbiamo poi potuto constatare in Grecia con Alba Dorata, in Ungheria con il Fidesz di Orban, in Francia con il Front National di Marine LePen e in Inghilterra con le recentissime vittorie di Ukip. In Italia abbiamo avuto imbarazzanti “misti” come la Lega Nord e ora il M5S, bizzarro rassemblement che pare combinare il Tempio del Popolo del Reverendo Jones e Syriza, “boyscoutismo rivoluzionario” e disciplinarismo delle società del controllo. Come si esce dalla crisi e con quali narrazioni discorsive “competitive e possibilmente vincenti”? Con le politiche neo-keynesiane tipiche del mondo anglosassone e della terza via socialdemocratica nord-europea o all’opposto con i neo populismi autoritari e razzisti ? Pare che tertium non datur.
LB Se è vero, come io ritengo, che siamo di fronte a una crisi di paradigma, nel senso che sono saltati alcuni parametri del paradigma capitalistico che è stato all'opera fino alla crisi finanziaria del 2008 e che quindi i principali processi in cui si articolava la "meccanica" di quel paradigma non funzionano più e, dunque, il paradigma nel suo insieme non è più in grado di far "girare" la società, ne discende che l'analisi va concentrata sui sintomi che preannunciano un nuovo paradigma e la fantasia collettiva va impegnata nell'immaginarne i possibili sviluppi.
Questo significa, specialmente parlando dell'Italia, ma il discorso vale per l'intero assetto capitalistico mondiale, che non si può provare a interferire con l'inevitabile transizione nell'intento di condizionarne l'esito sulla base del tradizionale armamentario delle politiche economiche, qualunque sia la dottrina che le ispira. Tenendo conto, per di più, di quella che io ritengo una fondamentale acquisizione dell'esperienza collettiva maturata nel "secolo breve" ossia che non esiste la possibilità, nella realtà concreta, di condizionare i processi economici e sociali secondo un piano razionale nel senso di guidarli verso mete predeterminate. Le politiche poste in atto dai governi sono solo un canale, per quanto potente, attraverso cui un attore, la politica, cerca di interferire con processi che originano dall'interazione di miliardi di decisioni che vengono continuamente prese sulla base dei moventi più diversi. Nella consapevolezza di questo limite basilare che caratterizza la "società globale" in cui viviamo, si possono tuttavia indicare alcune direzioni in cui può valere la pena di esercitare il massimo di pressione sociale che si è in grado di esprimere.
Un problema del vecchio ordine che va rimosso con un'azione esterna - perché nel sistema non vi è nulla, nessun meccanismo, in grado di contrastarlo efficacemente e autonomamente - è quello del potere economico e finanziario in mani private, soprattutto in quanto si pone in condizione di agire al di fuori di qualsiasi contesto di regole e, quindi, di qualsiasi giurisdizione. Questo è, et pour cause, un vuoto che caratterizza l'impianto costituzionale delle nostre democrazie. Quando il costituzionalismo è nato, con l'obiettivo di disinnescare la forza socialmente distruttiva di poteri che il nuovo ordine politico accoglieva al proprio interno, sottoponendoli a regole e meccanismi di bilanciamento, non si è pensato al potere economico. Forse proprio perché esso era parte in causa, soggetto attivo, nel cambiamento di regime che si stava operando. Questo contesto istituzionale, in cui il potere economico è stato lasciato libero di svilupparsi e di esercitarsi nel proprio, esclusivo interesse ha consentito lo sviluppo poderoso delle attività economiche sospinte dall'interesse di chi vi coglieva un nuovo e straordinario strumento per accedere alla ricchezza, un tempo monopolio dei proprietari terrieri.
Da più di un secolo, ormai, questo problema è entrato nell'agenda politica, per lo meno da quando gli americani si sono accorti del potere dirompente dei trust e si sono inventati uno strumento di controllo, l'antitrust, che avrebbe dovuto domarlo, riportandolo nell'alveo dei processi democratici. Sappiamo come sono andate, e come vanno, le cose. L'antitrust, anche quando si è esteso, com'è oggi, a quasi tutti i paesi del mondo, si è rivelato poco più di un pannicello caldo: sempre in ritardo, sempre a rincorrere le metamorfosi dell'impresa capitalistica e soprattutto incapace, oggi, di essere efficace a livello globale.
Da quando è stato istituito l'antitrust, le grandi imprese che vivono del loro potere di monopolio, transitorio o permanente, locale o globale, sono sempre state alla ricerca di soluzioni, espedienti, cambiamenti organizzativi, per sottrarsi alle regole e al controllo dei trustbuster, come in America si chiamano gli organismi che dovrebbero sovrintendere al corretto funzionamento del mercato, affidato all'effetto disciplinatore della concorrenza. La globalizzazione è, almeno in parte, il risultato di questa pressione delle grandi imprese impegnate nell'aggiramento delle regole poste dalle giurisdizioni nazionali. Si è sviluppata una concorrenza impropria fra ordinamenti al fine di attirare le grandi imprese globali, si sono moltiplicati i paradisi fiscali, si è formato una sistema bancario ombra, che ha favorito, a sua volta, la formazione di una finanza globale, anch'essa svincolata dalle regole che gli stati cercano di porre in essere.
Occorre dare vita a un movimento, possibilmente globale, che ponga consapevolmente questo problema al centro di una campagna d'informazione e sensibilizzazione. Non basteranno le manifestazioni spontanee di Occupy Wall Street e di tutte le sue possibili declinazioni nei diversi paesi, anche se questi movimenti, questi conati, sono la manifestazione patente del fatto che la coscienza civile globale è molto più avanti della cultura accademica e politica.
Un capitalismo diverso, perché di questo e non di altro si può parlare, reso compatibile con le nuove esigenze della società globale può nascere solo sulla base di un nuovo patto costituzionale che faccia propria e imponga la percezione del limite che deve essere posto alle attività economiche, a cominciare dal livello di ricchezza, di sperequazione e di potere economico che la società è in grado di tollerare per mantenere la propria coesione e la propria attrattiva.
Il secondo punto è una articolazione o, meglio, una proiezione del primo. Un capitalismo sostenibile può essere solo il prodotto di una mobilitazione collettiva sufficientemente ampia da indurre scarti significativi nelle traiettorie che l'economia, lasciata al l'influenza dominante degli attori forti, le grandi imprese ma anche i governi, tende a percorrere. È sul mercato, in primo luogo, e non contro di esso o fuori di esso, che possono affermarsi, attraverso la moltiplicazione virale di scelte individuali, anche piccole, le linee di un modello alternativo, costringendo le imprese, specialmente quelle grandi, globalizzate, a tenere conto di un quadro di preferenze che per la prima volta sarebbe determinato dalla volontà dei cittadini/consumatori invece che indotto dall'uso spregiudicato della comunicazione pubblicitaria.
Quella che serve, innanzitutto, è una rivoluzione culturale, che generi una presa di coscienza collettiva della necessità d'imprimere al nostro modello di società una poderosa spinta al cambiamento, recuperando il gusto per una qualità della vita che sia compatibile con un uso parsimonioso delle risorse e ricca di valori.
Questo significa, specialmente parlando dell'Italia, ma il discorso vale per l'intero assetto capitalistico mondiale, che non si può provare a interferire con l'inevitabile transizione nell'intento di condizionarne l'esito sulla base del tradizionale armamentario delle politiche economiche, qualunque sia la dottrina che le ispira. Tenendo conto, per di più, di quella che io ritengo una fondamentale acquisizione dell'esperienza collettiva maturata nel "secolo breve" ossia che non esiste la possibilità, nella realtà concreta, di condizionare i processi economici e sociali secondo un piano razionale nel senso di guidarli verso mete predeterminate. Le politiche poste in atto dai governi sono solo un canale, per quanto potente, attraverso cui un attore, la politica, cerca di interferire con processi che originano dall'interazione di miliardi di decisioni che vengono continuamente prese sulla base dei moventi più diversi. Nella consapevolezza di questo limite basilare che caratterizza la "società globale" in cui viviamo, si possono tuttavia indicare alcune direzioni in cui può valere la pena di esercitare il massimo di pressione sociale che si è in grado di esprimere.
Un problema del vecchio ordine che va rimosso con un'azione esterna - perché nel sistema non vi è nulla, nessun meccanismo, in grado di contrastarlo efficacemente e autonomamente - è quello del potere economico e finanziario in mani private, soprattutto in quanto si pone in condizione di agire al di fuori di qualsiasi contesto di regole e, quindi, di qualsiasi giurisdizione. Questo è, et pour cause, un vuoto che caratterizza l'impianto costituzionale delle nostre democrazie. Quando il costituzionalismo è nato, con l'obiettivo di disinnescare la forza socialmente distruttiva di poteri che il nuovo ordine politico accoglieva al proprio interno, sottoponendoli a regole e meccanismi di bilanciamento, non si è pensato al potere economico. Forse proprio perché esso era parte in causa, soggetto attivo, nel cambiamento di regime che si stava operando. Questo contesto istituzionale, in cui il potere economico è stato lasciato libero di svilupparsi e di esercitarsi nel proprio, esclusivo interesse ha consentito lo sviluppo poderoso delle attività economiche sospinte dall'interesse di chi vi coglieva un nuovo e straordinario strumento per accedere alla ricchezza, un tempo monopolio dei proprietari terrieri.
Da più di un secolo, ormai, questo problema è entrato nell'agenda politica, per lo meno da quando gli americani si sono accorti del potere dirompente dei trust e si sono inventati uno strumento di controllo, l'antitrust, che avrebbe dovuto domarlo, riportandolo nell'alveo dei processi democratici. Sappiamo come sono andate, e come vanno, le cose. L'antitrust, anche quando si è esteso, com'è oggi, a quasi tutti i paesi del mondo, si è rivelato poco più di un pannicello caldo: sempre in ritardo, sempre a rincorrere le metamorfosi dell'impresa capitalistica e soprattutto incapace, oggi, di essere efficace a livello globale.
Da quando è stato istituito l'antitrust, le grandi imprese che vivono del loro potere di monopolio, transitorio o permanente, locale o globale, sono sempre state alla ricerca di soluzioni, espedienti, cambiamenti organizzativi, per sottrarsi alle regole e al controllo dei trustbuster, come in America si chiamano gli organismi che dovrebbero sovrintendere al corretto funzionamento del mercato, affidato all'effetto disciplinatore della concorrenza. La globalizzazione è, almeno in parte, il risultato di questa pressione delle grandi imprese impegnate nell'aggiramento delle regole poste dalle giurisdizioni nazionali. Si è sviluppata una concorrenza impropria fra ordinamenti al fine di attirare le grandi imprese globali, si sono moltiplicati i paradisi fiscali, si è formato una sistema bancario ombra, che ha favorito, a sua volta, la formazione di una finanza globale, anch'essa svincolata dalle regole che gli stati cercano di porre in essere.
Occorre dare vita a un movimento, possibilmente globale, che ponga consapevolmente questo problema al centro di una campagna d'informazione e sensibilizzazione. Non basteranno le manifestazioni spontanee di Occupy Wall Street e di tutte le sue possibili declinazioni nei diversi paesi, anche se questi movimenti, questi conati, sono la manifestazione patente del fatto che la coscienza civile globale è molto più avanti della cultura accademica e politica.
Un capitalismo diverso, perché di questo e non di altro si può parlare, reso compatibile con le nuove esigenze della società globale può nascere solo sulla base di un nuovo patto costituzionale che faccia propria e imponga la percezione del limite che deve essere posto alle attività economiche, a cominciare dal livello di ricchezza, di sperequazione e di potere economico che la società è in grado di tollerare per mantenere la propria coesione e la propria attrattiva.
Il secondo punto è una articolazione o, meglio, una proiezione del primo. Un capitalismo sostenibile può essere solo il prodotto di una mobilitazione collettiva sufficientemente ampia da indurre scarti significativi nelle traiettorie che l'economia, lasciata al l'influenza dominante degli attori forti, le grandi imprese ma anche i governi, tende a percorrere. È sul mercato, in primo luogo, e non contro di esso o fuori di esso, che possono affermarsi, attraverso la moltiplicazione virale di scelte individuali, anche piccole, le linee di un modello alternativo, costringendo le imprese, specialmente quelle grandi, globalizzate, a tenere conto di un quadro di preferenze che per la prima volta sarebbe determinato dalla volontà dei cittadini/consumatori invece che indotto dall'uso spregiudicato della comunicazione pubblicitaria.
Quella che serve, innanzitutto, è una rivoluzione culturale, che generi una presa di coscienza collettiva della necessità d'imprimere al nostro modello di società una poderosa spinta al cambiamento, recuperando il gusto per una qualità della vita che sia compatibile con un uso parsimonioso delle risorse e ricca di valori.
- Sull'organizzazione
OC Daniel Guèrin nel suo “La peste brune” mostra come la conquista del potere di Hitler nella Germania del 1933 sia avvenuta grazie anzitutto a “micro-organizzazioni che gli conferivano un mezzo incomparabile, insostituibile per penetrare in tutte le cellule della società”. Il movimento di Grillo si è ramificato nella società grazie alla formula territoriale dei meet-up mutuata direttamente dal mondo politico statunitense, i meet-up di Howard Dean (vedi qui http://www.wired.com/wired/archive/12.01/dean.html). Ma il M5S è altro ancora dai Meet-Up. E’ possibile tentare un’analitica dell’esplosione M5S come neo-vettore energetico in mutazione vorticosa (Fèlix Guattari l’avrebbe chiamato “il movimento assoluto della macchina-Grillo)? Quali sono le componenti, i fili, i flussi, i segmenti, gli slanci e le eterodossie della “macchina da guerra astratta” grillina ?
Ne indicherei almeno quattro, che sono, com'è sempre nella realtà sociale, interconnessi e che, almeno in parte si sovrappongono.
Il primo è la progressiva divaricazione che si è prodotta fra una quota crescente dell'opinione pubblica e il ceto politico e che ha progressivamente eroso, fino a farla scomparire, la fiducia nei partiti come strumenti possibili, anche se imperfetti, per guidare la società verso obiettivi condivisi, capaci di realizzare il maggior benessere possibile per il maggior numero di persone. Il crollo, pressoché generalizzato, della fiducia nel sistema dei partiti si è tradotto talora in aperta ostilità nei confronti dei principali rappresentanti di quel sistema o dei politici tour court. Il rifiuto della politica e dei partiti così come oggi si presentano, infine, ha assunto spesso la forma di una reazione elementare e viscerale, accompagnata da un sostanziale rifiuto di ogni mediazione e, quindi, degli strumenti tradizionali della rappresentanza, senza i quali appare difficile, almeno sulla base delle esperienze fin qui condotte, che una democrazia possa vivere, facendo corrispondere quanto più possibile il governo della società alla "volontà popolare". La cultura politica diffusa si è impoverita fino ad assumere forme di rozzo qualunquismo, all'insegna di slogan tanto brutali, quanto efficaci, quali il "sono tutti uguali", il "sono tutti ladri", il "mandiamoli a casa" oppure, al vertice del buon gusto, il grillissimo "vaffa". Il dibattito politico è stato sostituito dall'invettiva. È venuto meno il ragionamento politico, il gusto per la mediazione e il compromesso, che della politica sono l'essenza. Il diritto di tutti a prendere la parola, in sé sacrosanto, ha dato luogo a una babele politica senza costrutto. L'affermazione e la diffusione dei social network vi hanno contribuito in misura sostanziale.
Si è formato uno spazio enorme, e questo è il secondo punto, in cui hanno avuto agio di proporsi le soluzioni più stravaganti e ha ripreso piede e slancio l'illusione di una democrazia diretta cui lo strumento dei social network offrirebbe la possibilità concreta di dispiegarsi su scala virtualmente illimitata, superando così quello che in passato è sempre stato considerato il limite intrinseco di questa forma, apparentemente la più autentica, di democrazia. I contorcimenti del M5S mostrano quanto impervia sia questa strada.
Questo spazio politicamente vuoto ha tuttavia reso visibile a tutti un fenomeno positivo che costituisce nel contempo una risorsa e un problema: una nuova e inaspettata volontà di protagonismo da parte di un numero crescente di individui, specialmente giovani, poco inclini a delegare e quindi ad accettare i riti della rappresentanza. Il grillismo migliore è quello che tenta di dare spazio a queste energie. Da qui occorrerà ripartire per ricostituire una vita democratica in grado di affrontare lo scandalo dei poteri non costituzionalizzati, da quello economico a quello della comunicazione. Uno dei fondamentali problemi politici del momento è come reimmettere queste energie nei canali della rappresentanza, in forme nuove o, comunque, rinnovate.
La terza osservazione è che, in questo momento, il grillismo è, prima di tutto, un veicolo a disposizione di coloro che intendono esprimere il loro dissenso e il loro distacco nei confronti della classe dirigente attuale, soprattutto politica ma non solo. Come tale è stato ed è utilizzato anche da spezzoni dell'elettorato di sinistra, esasperati dall'inconcludenza, dall'inadeguatezza e talora anche peggio dei loro rappresentanti.
Se questi tre punti riguardano tutti la sfera delle domande e delle attese che si riversano nel canale grillino, l'ultima osservazione che desidero fare riguarda il modo attraverso cui il grillismo tenta di darvi risposta. Non vi è dubbio, qui, che siamo nell'ambito di un populismo eclettico che cerca di convogliare la protesta in un tentativo di conquista del potere da parte di un gruppo dirigente senza alcuna legittimazione democratica e per di più impersonato da un individuo che usa il suo ruolo di uomo di spettacolo per rappresentare plasticamente la protesta e procurarsi facile consenso nelle piazze. I contenuti proposti non hanno il compito di incarnare una prospettiva di funzionamento positivo della società nell'interesse della maggioranza dei cittadini, ma solo di catturare il consenso nelle sue forme più immediate, senza la fatica, tutta politica, di costruire la convergenza su di un programma coerente.
In estrema sintesi, il grillismo si presenta come un fenomeno a due facce. Da un lato, come elemento di coagulo e di convergenza di un disagio e di una protesta che nascono nel vuoto lasciato da una politica che si è ritratta nella gestione degli interessi largamente minoritari di un'oligarchia che fonda il suo potere nei rapporti economici. Dall'altro, come un tentativo di trasformare la crisi della politica e della democrazia nella fine della politica e di sostituire la politica con una democrazia diretta mediatica, dietro la quale si nasconde e si agita lo spettro del leader carismatico che vive in simbiosi con il suo popolo, cui è concessa solo la facoltà di applauso. La volontà, più volte espressa, di conquistare il 100% dell'elettorato è, nel suo delirio, l'espressione suprema della negazione della politica e di una pulsione intimamente totalitaria.
- Sulle onde anomale
- OC Franco Berardi in un suo recente post sul sito di Micromega afferma che, con il voto del 24 febbraio 2013, la sconfitta dell’anti-Europa liberista comincia in Italia. Gli italiani, secondo la sua particolare lettura, avrebbero detto: non pagheremo il debito. Insolvenza. Che cosa è accaduto in Italia, secondo il vostro punto di vista, il 24 febbraio 2013? E poi, un recentissimo studio dell’Istituto Cattaneo - Gianluca Passarelli, il ricercatore - ha dimostrato che il M5S è il partito più “nazionale” delle elezioni del 24 febbraio; il suo scoring (0,90 sul top vote di 1,00) dimostra che il suo dato elettorale è il più omogeneo, nei termini di percentuale di voti, su tutto il territorio nazionale, più del PdL (0,889) e del PD (0,881). Ma come è potuto accadere ? Come è stato possibile che in quasi tre anni, dal 2010 al 2013, questo partito-movimento abbia potuto non solo competere, ma addirittura battere, macchine elettorali ben rodate quali quelle delle formazioni berlusconiane e della sinistra organizzata ?
LB Molto semplicemente, il meccanismo della rappresentanza si è inceppato e ha smesso di produrre risultati sensati. Non da oggi, ma i risultati del 24 febbraio rappresentano nel contempo una conferma di questo inceppamento e un punto di non ritorno nell'invio lezione del sistema politico italiano. La maniera più diretta di descrivere l'inceppamento della rappresentanza è quello di far ricorso alla metafora del mercato. È accaduto che, per una serie di ragioni abbastanza facili da identificare, l'"offerta" politica si è talmente allontanata dalla "domanda", che una quota consistente di cittadini, quasi la metà dei possibili votanti, ha smesso di partecipare al gioco, mentre altre quote consistenti procedono a tentoni, alla ricerca di un qualcosa che possa quanto meno dare espressione alla rabbia accumulata. Alcune brevi considerazioni aggiuntive:
1. I perimetri ideologici entro cui i partiti, sia quelli tradizionali sia, seppur in misura variabile, quelli di nuovo conio, cercano di attrarre il consenso non corrispondono più in alcun modo alla composizione sociale né alla configurazione degli interessi sociali. Sono solo il paravento dietro il quale si nascondono e agiscono interessi sezionali, non sempre commendevoli, i quali consentono a un ceto politico del tutto inadeguato professionalmente di mantenere le proprie posizioni di potere, spesso a fini di utile personale. È necessario che emergano forze, organizzazioni, capaci di dare espressione coerente e unitaria ad aggregazioni omogenee di interessi in nome di prospettive condivise. Gli organi della rappresentanza devono tornare a rappresentare qualcosa di effettivamente presente e attivo nella società. Non siamo ancora a questo punto. L'estrema degenerazione dell'autonomia della politica cui stiamo assistendo è ancora in grado di assicurare la sopravvivenza di una classe dirigente politica collusa che può ancora reggersi sugli ultimi brandelli di consenso che l'inerzia sociale ancora esprime. Lo sciopero del voto, in atto da tempo, non ha ancora prodotto effetti significativi, perché viene riassorbito e compensato da un funzionamento puramente formale, seppur degenerato, dei meccanismi della rappresentanza democratica. Non si vedono all'orizzonte possibili cambiamenti dotati della necessaria radicalità.
2. La polverizzazione della composizione sociale unita all'involuzione oligarchica del sistema dei partiti e all'invadenza di un potere economico capace come non mai di dettare l'agenda dei governi nonché al venir meno del collante ideologico offerto dalle culture popolari del novecento, rende estremamente difficile se non improbabile la ricostituzione spontanea di vaste aree di consenso sociale riunite intorno a prospettive politiche sufficientemente articolate e complesse da offrirsi come progetto di governo della società. Prevalgono le aggregazioni effimere e a raggio limitato, tutte incapaci, per definizione, di incidere significativamente sugli assetti di potere ereditati dall'era del compromesso socialdemocratico. Ne è un esempio lampante il movimento di Occupy Wall Street, con i suoi derivati, che, pur facendo appello all'interesse prioritario della schiacciante maggioranza dei cittadini, non riesce a esprimere una vera ed efficace opposizione politica. L'unica prospettiva che allo stato sembra offrire una possibile via d'uscita dal ghetto dell'irrilevanza politica, è quella che punta a ricostruire quella "società di mezzo" che un tempo innervava la rete della rappresentanza e che oggi è in gran parte travolta dall'implosione del sistema politico. Si tratta di ripartire dal basso, dalle forme di aggregazione in cui trovano espressione i cambiamenti di comportamento e di costume agiti dagli individui in prima persona e da quelle che formano la linea di resistenza dei protagonisti economici che agiscono in una dimensione territoriale e da qui aspirano a misurarsi con le sfide della globalizzazione.
3. Per quanto riguarda specificamente l'Italia, il problema maggiore, quasi insormontabile, è costituito, a mio avviso, da una società che si è riprodotta al riparo di un autentico processo di modernizzazione, consentendo la sopravvivenza di culture, costumi, comportamenti, valori, forme di relazione, che provengono da un contesto sociale premoderno e si sono costituiti per garantire la sopravvivenza dei singoli e della collettività in un mondo scarsamente toccato dai processi capitalistici e tanto meno dalle spinte della globalizzazione. La modernizzazione incompiuta ha fatto sì che negli strati profondi della società, laddove si formano, in maniera sostanzialmente irriflessa, le opinioni degli individui, continuassero a vivere e a fluire atteggiamenti ostili al moderno in tutte le sue declinazioni, seppure pronti a entusiasmarsi ingenuamente per le sue "invenzioni". Essi trovarono un momento di esaltazione nella narrazione fascista, transitarono pressoché immutati nel grande calderone del riformismo democristiano e sono tornati a esaltarsi per l'anomalia berlusconiana, che ne ha rivelato, una volta per tutte, il fondo populistico e antidemocratico. Rappresentano e hanno sempre rappresentato una buona metà del popolo italiano e, con il loro attivarsi o disattivarsi, hanno condizionato e condizionano i destini del paese.
Sul popolo che manca
1. I perimetri ideologici entro cui i partiti, sia quelli tradizionali sia, seppur in misura variabile, quelli di nuovo conio, cercano di attrarre il consenso non corrispondono più in alcun modo alla composizione sociale né alla configurazione degli interessi sociali. Sono solo il paravento dietro il quale si nascondono e agiscono interessi sezionali, non sempre commendevoli, i quali consentono a un ceto politico del tutto inadeguato professionalmente di mantenere le proprie posizioni di potere, spesso a fini di utile personale. È necessario che emergano forze, organizzazioni, capaci di dare espressione coerente e unitaria ad aggregazioni omogenee di interessi in nome di prospettive condivise. Gli organi della rappresentanza devono tornare a rappresentare qualcosa di effettivamente presente e attivo nella società. Non siamo ancora a questo punto. L'estrema degenerazione dell'autonomia della politica cui stiamo assistendo è ancora in grado di assicurare la sopravvivenza di una classe dirigente politica collusa che può ancora reggersi sugli ultimi brandelli di consenso che l'inerzia sociale ancora esprime. Lo sciopero del voto, in atto da tempo, non ha ancora prodotto effetti significativi, perché viene riassorbito e compensato da un funzionamento puramente formale, seppur degenerato, dei meccanismi della rappresentanza democratica. Non si vedono all'orizzonte possibili cambiamenti dotati della necessaria radicalità.
2. La polverizzazione della composizione sociale unita all'involuzione oligarchica del sistema dei partiti e all'invadenza di un potere economico capace come non mai di dettare l'agenda dei governi nonché al venir meno del collante ideologico offerto dalle culture popolari del novecento, rende estremamente difficile se non improbabile la ricostituzione spontanea di vaste aree di consenso sociale riunite intorno a prospettive politiche sufficientemente articolate e complesse da offrirsi come progetto di governo della società. Prevalgono le aggregazioni effimere e a raggio limitato, tutte incapaci, per definizione, di incidere significativamente sugli assetti di potere ereditati dall'era del compromesso socialdemocratico. Ne è un esempio lampante il movimento di Occupy Wall Street, con i suoi derivati, che, pur facendo appello all'interesse prioritario della schiacciante maggioranza dei cittadini, non riesce a esprimere una vera ed efficace opposizione politica. L'unica prospettiva che allo stato sembra offrire una possibile via d'uscita dal ghetto dell'irrilevanza politica, è quella che punta a ricostruire quella "società di mezzo" che un tempo innervava la rete della rappresentanza e che oggi è in gran parte travolta dall'implosione del sistema politico. Si tratta di ripartire dal basso, dalle forme di aggregazione in cui trovano espressione i cambiamenti di comportamento e di costume agiti dagli individui in prima persona e da quelle che formano la linea di resistenza dei protagonisti economici che agiscono in una dimensione territoriale e da qui aspirano a misurarsi con le sfide della globalizzazione.
3. Per quanto riguarda specificamente l'Italia, il problema maggiore, quasi insormontabile, è costituito, a mio avviso, da una società che si è riprodotta al riparo di un autentico processo di modernizzazione, consentendo la sopravvivenza di culture, costumi, comportamenti, valori, forme di relazione, che provengono da un contesto sociale premoderno e si sono costituiti per garantire la sopravvivenza dei singoli e della collettività in un mondo scarsamente toccato dai processi capitalistici e tanto meno dalle spinte della globalizzazione. La modernizzazione incompiuta ha fatto sì che negli strati profondi della società, laddove si formano, in maniera sostanzialmente irriflessa, le opinioni degli individui, continuassero a vivere e a fluire atteggiamenti ostili al moderno in tutte le sue declinazioni, seppure pronti a entusiasmarsi ingenuamente per le sue "invenzioni". Essi trovarono un momento di esaltazione nella narrazione fascista, transitarono pressoché immutati nel grande calderone del riformismo democristiano e sono tornati a esaltarsi per l'anomalia berlusconiana, che ne ha rivelato, una volta per tutte, il fondo populistico e antidemocratico. Rappresentano e hanno sempre rappresentato una buona metà del popolo italiano e, con il loro attivarsi o disattivarsi, hanno condizionato e condizionano i destini del paese.
Sul popolo che manca
- OC Mario Tronti afferma che “c’è populismo perché non c’è popolo”. Tema eterno, quello del popolo, che Tronti declina in modalità tutte italiane in quanto “le grandi forze politiche erano saldamente poggiate su componenti popolari presenti nella storia sociale: il popolarismo cattolico, la tradizione socialista, la diversità comunista. Siccome c’era popolo, non c’era populismo.” Pure in ambiti di avanguardie artistiche storiche, Paul Klee si lamentava spesso che era “il popolo a mancare”. Ma la critica radicale al populismo - è sempre Tronti che riflette - ha portato a importanti risultati: il primo, in America, alla nascita dell’età matura della democrazia; il secondo, nell’impero zarista, la nascita della teoria e della pratica della rivoluzione in un paese afflitto dalle contraddizioni dello sviluppo del capitalismo in un paese arretrato (Lenin e il bolscevismo). Ma nell’analisi della situazione italiana ed europea è tranchant: “Nel populismo di oggi, non c’è il popolo e non c’è il principe. E’ necessario battere il populismo perché nasconde il rapporto di potere”. L’abilità del neo-populismo, attraverso gli apparati economici-mediatici-spettacolari-giudiziari, è nel costruire costantemente dei “popoli fidelizzati” più simili al “portafoglio-clienti” del mondo brandizzato dell’economia neo-liberale: quello berlusconiano è da vent’anni che segue blindato le gesta del sultano di Arcore; quello grillino, in costruzione precipitosa, sta seguendo gli stessi processi identificativi totalizzanti del “popolo berlusconiano”, dando forma e topos alle pulsioni più deteriori e confuse degli strati sociali italiani. Con le fragilità istituzionali, le sovranità altalenanti, gli universali della sinistra in soffitta - classe, stato, conflitto, solidarietà, uguaglianza - come si fa popolo oggi ? E’ possibile reinventare un popolo anti-autoritario? A mancare, è solo il popolo o la politica stessa?
LB Non so se si può inventare un popolo, anche se il popolo democratico è stato forse una grande invenzione che per un po' ha fatto credere che il problema dei diritti e delle libertà individuali fosse definitivamente risolto. Il popolo, in realtà, è una metafora che vorrebbe conferire unitarietà a ciò che unitario non è. Perché la società è tutt'altro che un corpo unitario, è anzi attraversato da una miriade di fratture, scissioni, articolazioni, che ne muovono la vita in profondità e spesso emergono nella forma di contrasti e conflitti locali, intermittenti o permanenti, che alla fine trovano la via della ricomposizione politica attraverso i mille rivoli della rappresentanza. Questo è ciò che in ogni dato momento storico conferisce a una società il suo carattere distintivo e ne determina la dinamica evolutiva.
Ma c'è bisogno, appunto, finora c'è stato bisogno, della politica, di quell'attività e di quel corredo di istituzioni che sono capaci di ridurre la complessità sociale fino a farne un possibile soggetto di decisioni. Che è esattamente quello che oggi sembra mancare, perché nel corso dell'ultimo trentennio la politica si è resa largamente autonoma dalle dinamiche sociali, si è incrociata con la sfera degli interessi economici ed è divenuta autoreferenziale. Il processo decisionale pubblico, che era e doveva essere, in una società democratica, l'output dell'attività politica è diventato appannaggio, per non dire affare privato, di gruppi ristretti di élite, tra cui quella politica, interconnessi fra di loro.
L'individualismo mascalzone che l'oligarchia dominante a livello globale è riuscita a far diventare l'ideologia più diffusa e condivisa, anche a livello popolare, ha scardinato tutti quegli elementi di connessione, culturali, politici, organizzativi, che, presi nel loro insieme, costituivano il nesso sociale alla base della vita collettiva. La società si è come spappolata e ha perso la capacità di produrre comportamenti e valori cooperativi.
Ma c'è bisogno, appunto, finora c'è stato bisogno, della politica, di quell'attività e di quel corredo di istituzioni che sono capaci di ridurre la complessità sociale fino a farne un possibile soggetto di decisioni. Che è esattamente quello che oggi sembra mancare, perché nel corso dell'ultimo trentennio la politica si è resa largamente autonoma dalle dinamiche sociali, si è incrociata con la sfera degli interessi economici ed è divenuta autoreferenziale. Il processo decisionale pubblico, che era e doveva essere, in una società democratica, l'output dell'attività politica è diventato appannaggio, per non dire affare privato, di gruppi ristretti di élite, tra cui quella politica, interconnessi fra di loro.
L'individualismo mascalzone che l'oligarchia dominante a livello globale è riuscita a far diventare l'ideologia più diffusa e condivisa, anche a livello popolare, ha scardinato tutti quegli elementi di connessione, culturali, politici, organizzativi, che, presi nel loro insieme, costituivano il nesso sociale alla base della vita collettiva. La società si è come spappolata e ha perso la capacità di produrre comportamenti e valori cooperativi.
Sulle società di controllo
OC Gilles Deleuze nel Poscritto delle Società di Controllo, pubblicato nel maggio del 1990, afferma che, grazie alle illuminanti analisi di Michel Foucault, emerge una nuova diagnosi della società contemporanea occidentale. L’analisi deleuziana è la seguente: le società di controllo hanno sostituito le società disciplinari allo scollinare del XX secolo. Deleuze scrive che “il marketing è ora lo strumento del controllo sociale e forma la razza impudente dei nostri padroni”. Difficile dargli torto se valutiamo l’incontrovertibile fatto che, dietro a due avventure elettorali di strepitoso successo - Forza Italia e Movimento 5 Stelle - si stagliano due società di marketing: la Publitalia 80 di Marcello Dell’Utri e la Casaleggio Asssociati di Gianroberto Casaleggio. Meccanismi di controllo, eventi mediatici quali gli exit polls, sondaggi infiniti, banche dati in/penetrabili, data come commodities, spin-doctoring continuo, consensi in rete guidati da influencer, bot e social network opachi, digi-squadrismo, echo-chambering dominante, tracciabilità dei percorsi in rete tramite cookies, queste le determinazioni delle società post-ideologica (post-democratica?) neoliberale. Le miserie delle nuove tecniche di controllo rivaleggia solo con le miserie della “casa di vetro” della trasparenza grillina (il web-control, of course). Siamo nell’epoca della post-politica, afferma Jacques Ranciere: Come uscire dalla gabbia neo-liberale e liberarci dal consenso ideologico dei suoi prodotti elettorali? Quale sarà la riconfigurazione della politica - per un nuovo popolo liberato - dopo l’esaurimento dell’egemonia marxista nella sinistra ?
LB Non penso che la situazione creata dal neo-liberalismo sia una gabbia. Oggi viviamo, probabilmente, la fase estrema di un processo che ha visto l'affermazione, in maniera pressoché incontrastata, di un'ideologia proveniente dalla grande famiglia del liberalismo, ma che, in realtà, con il liberalismo classico ha ben poco a che fare. Questa ideologia è stata in parte ispirata, ma soprattutto fatta propria e sostenuta da alcuni centri del capitalismo mondiale che si sono posti per tempo l'obiettivo di conquistare o riconquistare l'egemonia culturale quale strumento per affermare la loro egemonia economica e politica. Ne hanno fatto l'elemento propulsivo di una vasta e decisa opera di smantellamento del "patto socialdemocratico" o "compromesso keynesiano" che lo si voglia chiamare ovvero del modello dell'"economia mista". Come tutti sanno, quello è stato l'unico momento e quella l'unica forma, con tutte le sue varianti, in cui si è riusciti a dare vita a governi democratici capaci di assicurare la coesione e il progresso sociale sulla base di un compromesso con le forze del capitalismo mondiale che, indebolite dalla Grande crisi, avevano accettato di condividere, seppur obtorto collo, i termini di un progetto di società che poneva una serie di limiti alla loro libertà di agire e, soprattutto, gli chiedeva di partecipare alla costruzione di una società più equa.
Oggi, dopo la crisi finanziaria e poi produttiva del 2008, siamo di nuovo a quel bivio. Se non sapremo, se la società globale non sarà in grado di mettere in campo energie sufficienti per imporre un nuovo compromesso, il pallino dell'economia globale e, quindi, della politica mondiale resterà nelle mani dell'oligarchia che è uscita vittoriosa dal confronto con il compromesso keynesiano, dando vita a un ordine mondiale che si regge sulla dinamica dei mercati e sul dominio che su di essa esercita un gruppo ristretto di mega-strutture a dimensione globale unite da una fitta rete di rapporti per lo più occulti o semi-occulti.
La vittoria di questo coacervo di interessi attivi su scala globale è stata ottenuta sulla base di una guerra ideologica combattuta a tutti i livelli per conquistare l'egemonia culturale nelle società più importanti del mondo e non solo in quelle. Il risultato è che ne sono uscite fortemente indebolite, se non ridotte all'irrilevanza, le grandi ideologie che avevano innervato la lotta politica nel secolo scorso, ma non hanno saputo cogliere né raccogliere la sfida, procedendo a un rinnovamento radicale dall'analisi e della prospettiva ideale. Ma la conseguenza più grave di questa sconfitta è che il crollo di quelle ideologie, in particolare di quella socialista, ha trascinato con sé tutto l'apparato politico-istituzionale che era stato protagonista del conflitto politico novecentesco, in primo luogo i partiti. I partiti, è bene ricordarlo, hanno avuto nelle democrazie rappresentative classiche la funzione di rappresentare i bisogni e le aspirazioni della gente, di organizzare il consenso, di selezionare la classe dirigente, di organizzare i governi e formulare i loro programmi, di provvedere a monitorare e controllare l'attuazione delle leggi. Senza che queste funzioni vengano svolte, una democrazia non funziona e si trasforma in qualcosa d'altro. Oggi siamo in questa situazione. Il potere reale è stato trasferito altrove e viene esercitato senza nessuna legittimazione democratica, senza alcun controllo democratico, in maniera per lo più occulta.
In tutte le società del mondo si sono sviluppate e si sviluppano iniziative di cittadini attivi che tentano, più o meno consapevolmente, di porre rimedio a questa situazione, riaprendo qualche canale di comunicazione democratica almeno con le sedi formali del potere. Ma si tratta di iniziative che, per quanto di massa e di successo, rimangono irrimediabilmente minoritarie e impotenti ad affrontare il problema immane di una rinascita democratica.
I processi economici e i connessi processi politici dell'ultimo trentennio hanno disintegrato il tessuto sociale che teneva insieme le comunità occidentali, rendendo estremamente difficoltosa la formazione di volontà collettive capaci di tradursi, con tutti i limiti che la storia delle democrazie ha mostrato, in una qualche forma di governo dei processi sociali.
È venuta meno l'illusione, tipica della prima modernità, che la politica fosse in grado di guidare la società verso gli obiettivi di un progetto, elaborato collettivamente o meno, ma comunque condiviso. È finita l'epoca della politica intesa, appunto, come progetto. Il vuoto che essa lascia è enorme, non solo per i fallimenti che ha prodotto, per le illusioni che ha alimentato, per le sofferenze che ha imposto. È un vuoto enorme perché nessuno al momento sa come riempirlo e perché in esso scorrazzano senza più alcuna remora le élite che compongono l'oligarchia globale.
Il problema principale della cultura di sinistra, di origine marxista, socialista o comunista, quello che probabilmente ne ha decretato il tramonto, è il fatto di non aver mai fatto i conti fino in fondo, salvo qualche caso, con il liberalismo, quello vero, e di non essere riuscita, quindi, a elaborare una propria cultura del mercato. A sinistra, quando si è pensato, e non è avvenuto spesso negli ultimi decenni, si è ritenuto che il mercato fosse un'istituzione transeunte, rozza, barbarica, regno degli spiriti animali del capitalismo, e destinata quindi a essere soppiantata da un ordine razionale che facesse perno sul ruolo dello stato. Non c'è stata la capacità e l'intelligenza analitica di comprendere che il mercato è, appunto, un'istituzione necessaria in un assetto capitalistico, l'unica capace, se correttamente intesa e gestita, di domare gli spiriti animali e renderli compatibili con un ordine sociale democratico. E questo, forse, perché anche il capitalismo è stato inteso come un fenomeno transitorio, destinato a essere rapidamente superato, e non una struttura portante, nel bene e nel male, delle nostre economie e delle nostre società e destinato, quindi, seppur attraverso continue crisi e metamorfosi, a riprodursi a lungo. Si è così rinunciato, di fatto, a pensare il capitalismo che c’è e a individuare i possibili modi di una sua convivenza con una società dotata di istituzioni democratiche nell’epoca della sfida globale. Così la cultura di sinistra, specialmente quella politica, si è condannata all’irrilevanza, lasciandosi rinchiudere in una sorta di “riserva” nella quale sembra talora essere addirittura soddisfatta di vivere, al riparo dalle dure sfide del presente e nella confortevole rimembranza dei tempi andati.
Quello che oggi colpisce, almeno me, negli atteggiamenti di tanta parte della sinistra, è l'ottusa pervicacia con cui tanti rimangono abbarbicati a un'ideologia, a una visione del mondo se si vuole, che non è più in grado di cogliere le caratteristiche essenziali delle società in cui viviamo e quindi nemmeno di immaginarne possibili correttivi, in una prospettiva che sia coerente e compatibile con la realtà esistente. Ci si muove e ci si comporta come se in questa realtà, con forzature volontaristiche, si potessero innestare a piacimento schemi e soluzioni immaginati in un passato che ha assunto caratteri mitici agli occhi di molti, di troppi, perché fondatori di una comunità che si è da tempo dissolta sotto i colpi di un conflitto che ha assunto forme e contenuti affatto nuovi e imprevisti. La sconfitta politica della sinistra, che io ritengo definitiva, è figlia di questo vuoto culturale, creato a sua volta da un ingiustificato senso di superiorità antropologica che ha fatto perdere il contatto con il resto della società. Non è un caso che, ormai da decenni, la cultura di sinistra non sia in grado di produrre un'analisi della composizione sociale e continui invece a inventarsi nuovi soggetti e conflitti che nessuno vede e che poi, ovviamente, si dissolvono senza lasciare traccia.
La strada per svincolarsi dall'egemonia neo-liberale che si è affermata nell'ultimo trentennio, a seguito di una battaglia culturale ingaggiata molto prima, passa attraverso una battaglia culturale di segno opposto, che riesca a diffondere un'idea di società e una prospettiva di cambiamento quanto più possibile condivisibile e condivisa. Non è facile, perché la gente comune, quelli che fanno il 99%, non dispongono normalmente dei mezzi e delle organizzazioni che, invece, hanno sostenuto la campagna neo-liberale. Sarebbe necessario, in ogni caso, abbandonare ogni velleità di ricreare gli scenari del conflitto novecentesco, dando vita a una "sinistra" alternativa a una "destra", ormai prive entrambe di solide radici nella realtà sociale. Occorre, invece, capire e analizzare accuratamente il crinale lungo cui corre oggi il discrimine fondamentale che divide due idee di società e due modalità contrapposte di concepire l'esercizio del potere. Per far questo, è necessario abbandonare un altro mito della cultura della sinistra ovvero l'idea che la matrice del conflitto sociale che muove la storia sia sempre e soltanto la configurazione dei rapporti che si definiscono sui luoghi di lavoro. Il lavoro continua a essere una dimensione fondamentale della vita sociale, ma non è più, da molto tempo, quella che ne struttura le dinamiche fondamentali. Oggi la linea di faglia che taglia in due il corpo sociale e scrive la geometria dei rapporti di potere non passa più per la geografia dei ruoli ricoperti nella sfera della produzione - dipendenti/dirigenti, operai/impiegati, occupati/disoccupati, lavoratori manuali/lavoratori intellettuali, lavoro dipendente/professionisti - ma passa lungo il crinale che separa senza possibilità di contatto coloro che hanno in mano le sorti del mondo, perché manovrano risorse enormi e muovono organizzazioni potentissime, e tutti gli altri. Il 99%, appunto, contro l'1%, la massa senza potere contro l'oligarchia che controlla tutto il potere.
I conflitti che ci saranno, se ci saranno, occuperanno le piazze e solo secondariamente i luoghi di lavoro e in ballo ci sarà la qualità delle nostre vite, la sopravvivenza dell'ambiente e, soprattutto, la necessità di porre limiti a un potere oligarchico che promana dalla ricchezza e che si è impadronito del mondo senza avere un'idea di come gestirlo. Questo potrà avvenire solo se gli individui, perché di questo si tratta, non le masse che come tali oggi non producono soggettività alcuna, prenderanno coscienza del fatto che le loro vite, rese interdipendenti come non mai dalla globalizzazione, possono essere riempite di diritti e di libertà solo se si riscoprono i modi di cooperare su scala planetaria, ricreando quegli strumenti di espressione della volontà collettiva che la prima democrazia ci ha regalato, ma non ha saputo preservare dal ritorno degli oligarchi e delle élite che li circondano. Non possiamo fare a meno della politica come creatrice di cultura e come strumento per addomesticare i poteri esorbitanti che minacciano la società. E avremo bisogno, presumibilmente, anche di partiti, non quelli di oggi, di organismi intermedi, che rendano possibile il protagonismo degli individui trasformandolo in motore della politica.
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Lapo Berti, italiano, economista, è stato dal marzo 1993 al luglio 2010 dirigente presso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. È stato docente di Politica economica e finanziaria. Si è occupato di problemi di teoria monetaria e di storia del pensiero economico nonché di politica economica. È autore di L’Antieuropa delle monete (con A. Fumagalli, Il Manifesto 1993) e di Saldi di fine secolo. Le privatizzazioni in Italia (Ediesse, 1998). Più di recente ha pubblicato Il mercato oltre le ideologie (Università Bocconi Editore, 2006), Le stagioni dell'antitrust (con Andrea Pezzoli,Università Bocconi Editore 2010) e Trattatello sulla felicità (LUISS University Press, 2013). Giovanissimo, ha iniziato a collaborare (1964-1966) con il gruppo della rivista della sinistra operaista "Classe Operaia" di cui Mario Tronti fu tra i fondatori (con Massimo Cacciari e Alberto Asor Rosa) e negli anni Settanta è stato redattore di alcuni progetti editoriali militanti tra i quali la rivista Primo Maggio. Presidente dell'associazione ACQ/Lab21 scrive regolarmente sul sito di www.lib21.orgOggi, dopo la crisi finanziaria e poi produttiva del 2008, siamo di nuovo a quel bivio. Se non sapremo, se la società globale non sarà in grado di mettere in campo energie sufficienti per imporre un nuovo compromesso, il pallino dell'economia globale e, quindi, della politica mondiale resterà nelle mani dell'oligarchia che è uscita vittoriosa dal confronto con il compromesso keynesiano, dando vita a un ordine mondiale che si regge sulla dinamica dei mercati e sul dominio che su di essa esercita un gruppo ristretto di mega-strutture a dimensione globale unite da una fitta rete di rapporti per lo più occulti o semi-occulti.
La vittoria di questo coacervo di interessi attivi su scala globale è stata ottenuta sulla base di una guerra ideologica combattuta a tutti i livelli per conquistare l'egemonia culturale nelle società più importanti del mondo e non solo in quelle. Il risultato è che ne sono uscite fortemente indebolite, se non ridotte all'irrilevanza, le grandi ideologie che avevano innervato la lotta politica nel secolo scorso, ma non hanno saputo cogliere né raccogliere la sfida, procedendo a un rinnovamento radicale dall'analisi e della prospettiva ideale. Ma la conseguenza più grave di questa sconfitta è che il crollo di quelle ideologie, in particolare di quella socialista, ha trascinato con sé tutto l'apparato politico-istituzionale che era stato protagonista del conflitto politico novecentesco, in primo luogo i partiti. I partiti, è bene ricordarlo, hanno avuto nelle democrazie rappresentative classiche la funzione di rappresentare i bisogni e le aspirazioni della gente, di organizzare il consenso, di selezionare la classe dirigente, di organizzare i governi e formulare i loro programmi, di provvedere a monitorare e controllare l'attuazione delle leggi. Senza che queste funzioni vengano svolte, una democrazia non funziona e si trasforma in qualcosa d'altro. Oggi siamo in questa situazione. Il potere reale è stato trasferito altrove e viene esercitato senza nessuna legittimazione democratica, senza alcun controllo democratico, in maniera per lo più occulta.
In tutte le società del mondo si sono sviluppate e si sviluppano iniziative di cittadini attivi che tentano, più o meno consapevolmente, di porre rimedio a questa situazione, riaprendo qualche canale di comunicazione democratica almeno con le sedi formali del potere. Ma si tratta di iniziative che, per quanto di massa e di successo, rimangono irrimediabilmente minoritarie e impotenti ad affrontare il problema immane di una rinascita democratica.
I processi economici e i connessi processi politici dell'ultimo trentennio hanno disintegrato il tessuto sociale che teneva insieme le comunità occidentali, rendendo estremamente difficoltosa la formazione di volontà collettive capaci di tradursi, con tutti i limiti che la storia delle democrazie ha mostrato, in una qualche forma di governo dei processi sociali.
È venuta meno l'illusione, tipica della prima modernità, che la politica fosse in grado di guidare la società verso gli obiettivi di un progetto, elaborato collettivamente o meno, ma comunque condiviso. È finita l'epoca della politica intesa, appunto, come progetto. Il vuoto che essa lascia è enorme, non solo per i fallimenti che ha prodotto, per le illusioni che ha alimentato, per le sofferenze che ha imposto. È un vuoto enorme perché nessuno al momento sa come riempirlo e perché in esso scorrazzano senza più alcuna remora le élite che compongono l'oligarchia globale.
Il problema principale della cultura di sinistra, di origine marxista, socialista o comunista, quello che probabilmente ne ha decretato il tramonto, è il fatto di non aver mai fatto i conti fino in fondo, salvo qualche caso, con il liberalismo, quello vero, e di non essere riuscita, quindi, a elaborare una propria cultura del mercato. A sinistra, quando si è pensato, e non è avvenuto spesso negli ultimi decenni, si è ritenuto che il mercato fosse un'istituzione transeunte, rozza, barbarica, regno degli spiriti animali del capitalismo, e destinata quindi a essere soppiantata da un ordine razionale che facesse perno sul ruolo dello stato. Non c'è stata la capacità e l'intelligenza analitica di comprendere che il mercato è, appunto, un'istituzione necessaria in un assetto capitalistico, l'unica capace, se correttamente intesa e gestita, di domare gli spiriti animali e renderli compatibili con un ordine sociale democratico. E questo, forse, perché anche il capitalismo è stato inteso come un fenomeno transitorio, destinato a essere rapidamente superato, e non una struttura portante, nel bene e nel male, delle nostre economie e delle nostre società e destinato, quindi, seppur attraverso continue crisi e metamorfosi, a riprodursi a lungo. Si è così rinunciato, di fatto, a pensare il capitalismo che c’è e a individuare i possibili modi di una sua convivenza con una società dotata di istituzioni democratiche nell’epoca della sfida globale. Così la cultura di sinistra, specialmente quella politica, si è condannata all’irrilevanza, lasciandosi rinchiudere in una sorta di “riserva” nella quale sembra talora essere addirittura soddisfatta di vivere, al riparo dalle dure sfide del presente e nella confortevole rimembranza dei tempi andati.
Quello che oggi colpisce, almeno me, negli atteggiamenti di tanta parte della sinistra, è l'ottusa pervicacia con cui tanti rimangono abbarbicati a un'ideologia, a una visione del mondo se si vuole, che non è più in grado di cogliere le caratteristiche essenziali delle società in cui viviamo e quindi nemmeno di immaginarne possibili correttivi, in una prospettiva che sia coerente e compatibile con la realtà esistente. Ci si muove e ci si comporta come se in questa realtà, con forzature volontaristiche, si potessero innestare a piacimento schemi e soluzioni immaginati in un passato che ha assunto caratteri mitici agli occhi di molti, di troppi, perché fondatori di una comunità che si è da tempo dissolta sotto i colpi di un conflitto che ha assunto forme e contenuti affatto nuovi e imprevisti. La sconfitta politica della sinistra, che io ritengo definitiva, è figlia di questo vuoto culturale, creato a sua volta da un ingiustificato senso di superiorità antropologica che ha fatto perdere il contatto con il resto della società. Non è un caso che, ormai da decenni, la cultura di sinistra non sia in grado di produrre un'analisi della composizione sociale e continui invece a inventarsi nuovi soggetti e conflitti che nessuno vede e che poi, ovviamente, si dissolvono senza lasciare traccia.
La strada per svincolarsi dall'egemonia neo-liberale che si è affermata nell'ultimo trentennio, a seguito di una battaglia culturale ingaggiata molto prima, passa attraverso una battaglia culturale di segno opposto, che riesca a diffondere un'idea di società e una prospettiva di cambiamento quanto più possibile condivisibile e condivisa. Non è facile, perché la gente comune, quelli che fanno il 99%, non dispongono normalmente dei mezzi e delle organizzazioni che, invece, hanno sostenuto la campagna neo-liberale. Sarebbe necessario, in ogni caso, abbandonare ogni velleità di ricreare gli scenari del conflitto novecentesco, dando vita a una "sinistra" alternativa a una "destra", ormai prive entrambe di solide radici nella realtà sociale. Occorre, invece, capire e analizzare accuratamente il crinale lungo cui corre oggi il discrimine fondamentale che divide due idee di società e due modalità contrapposte di concepire l'esercizio del potere. Per far questo, è necessario abbandonare un altro mito della cultura della sinistra ovvero l'idea che la matrice del conflitto sociale che muove la storia sia sempre e soltanto la configurazione dei rapporti che si definiscono sui luoghi di lavoro. Il lavoro continua a essere una dimensione fondamentale della vita sociale, ma non è più, da molto tempo, quella che ne struttura le dinamiche fondamentali. Oggi la linea di faglia che taglia in due il corpo sociale e scrive la geometria dei rapporti di potere non passa più per la geografia dei ruoli ricoperti nella sfera della produzione - dipendenti/dirigenti, operai/impiegati, occupati/disoccupati, lavoratori manuali/lavoratori intellettuali, lavoro dipendente/professionisti - ma passa lungo il crinale che separa senza possibilità di contatto coloro che hanno in mano le sorti del mondo, perché manovrano risorse enormi e muovono organizzazioni potentissime, e tutti gli altri. Il 99%, appunto, contro l'1%, la massa senza potere contro l'oligarchia che controlla tutto il potere.
I conflitti che ci saranno, se ci saranno, occuperanno le piazze e solo secondariamente i luoghi di lavoro e in ballo ci sarà la qualità delle nostre vite, la sopravvivenza dell'ambiente e, soprattutto, la necessità di porre limiti a un potere oligarchico che promana dalla ricchezza e che si è impadronito del mondo senza avere un'idea di come gestirlo. Questo potrà avvenire solo se gli individui, perché di questo si tratta, non le masse che come tali oggi non producono soggettività alcuna, prenderanno coscienza del fatto che le loro vite, rese interdipendenti come non mai dalla globalizzazione, possono essere riempite di diritti e di libertà solo se si riscoprono i modi di cooperare su scala planetaria, ricreando quegli strumenti di espressione della volontà collettiva che la prima democrazia ci ha regalato, ma non ha saputo preservare dal ritorno degli oligarchi e delle élite che li circondano. Non possiamo fare a meno della politica come creatrice di cultura e come strumento per addomesticare i poteri esorbitanti che minacciano la società. E avremo bisogno, presumibilmente, anche di partiti, non quelli di oggi, di organismi intermedi, che rendano possibile il protagonismo degli individui trasformandolo in motore della politica.
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Bibliografia
1) testi di riferimento alla domanda Sul micro-fascismo
Wu Ming, Yet another right-wing cult coming from Italy, via Wu Ming blog.
Wu Ming, Yet another right-wing cult coming from Italy, via Wu Ming blog.
Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo - Einaudi, 2002
Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille Piani, Castelvecchi, 2010
Gilles Deleuze, L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, 2007 (cfr. pg. 269, 'Gli Intellettuali e il Potere', conversazione con Michel Foucault del 4 marzo 1972) “Questo sistema in cui viviamo non può sopportare nulla: di qui la sua radicale fragilità in ogni punto e nello stesso tempo la sua forza complessiva di repressione” (intervista a Deleuze e Foucault, pg. 264)
2) testi di riferimento alla domanda Sulla Crisi
Slavoj Zizek, First as Tragedy, then as Farce. Verso, Uk, 2009 (pg. 17)
Slavoj Zizek, First as Tragedy, then as Farce. Verso, Uk, 2009 (pg. 17)
3) testi di riferimento alla domanda Sull'organizzazione
Gilles Deleuze-Félix Guattari - Millepiani (Castelvecchi, III edizione, Novembre 2010): Nono Piano: 1933 Micro-politica e segmenterietà. (pg.265 - “Daniel Guèrin (La peste brune, 1933) ha ragione nel dire che Hitler, e non lo Stato maggiore tedesco, ha conquistato il potere in quanto disponeva anzitutto di micro-organizzazioni che gli conferivano “un mezzo incomparabile, insostituibile, per penetrare in tutte le cellule della società”, segmentarietà flessibile, molecolare, flussi capaci di irrorare cellule di ogni genere”
Daniel Guérin - The Brown Plague - DUP, Usa, 1994
Gilles Deleuze-Fèlix Guattari - Apparato di cattura - Sezione IV di Millepiani (Castelvecchi, I edizione, maggio 1997): Piano 15: Regole concrete e macchine astratte (pg. 150 - “Un movimento è assoluto quando, quali che siano la sua quantità e la sua velocità, rapporta “un corpo” considerato come molteplice ad uno spazio liscio che occupa in maniera vorticosa”)
4) testi di riferimento alla domanda Sull'onda anomala
Franco Berardi - La sconfitta dell’anti-Europa liberista comincia in Italia - Micromega website:
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/02/27/franco-bifo-berardi-la-sconfitta-dellanti-europa-liberista-comincia-in-italia/
Istituto Cattaneo - http://www.cattaneo.org
Gilles Deleuze, Félix Guattari - Millepiani - Castelvecchi, 2010 (pg.249 - 1874. tre novelle o “che cosa è accaduto”?)
5) testi di riferimento alla domanda Sul popolo che manca
Mario Tronti, 'C’è populismo perché non c’è popolo', in Democrazia e Diritto, n.3-4/2010.
Mario Tronti, 'C’è populismo perché non c’è popolo', in Democrazia e Diritto, n.3-4/2010.
Paul Klee, Diari 1898-1918. La vita, la pittura, l’amore: un maestro del Novecento si racconta - Net, 2004
Gilles Deleuze, Fèlix Guattari, Millepiani (in '1837. Sul Ritornello' pg. 412-413)
6) testi di riferimento alla domanda Sul controllo
Jacques Ranciere, Disagreement. Politics and Philosophy, UMP, Usa, 2004
Jacques Ranciere, Disagreement. Politics and Philosophy, UMP, Usa, 2004
Gilles Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Ita, 2000 (pg. 234, 'Poscritto sulle società di controllo')
Saul Newman, 'Politics in the Age of Control', in Deleuze and New Technology, Mark Poster and David Savat, Edinburgh University Press, Uk, 2009, pp. 104-122. 
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Dipinto: Stelios Faitakis
Dipinto: Stelios Faitakis
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