Intervista a Paolo Godani su "Masse, potere e postdemocrazia nel XXI secolo" a cura dei blog Obsolete Capitalism e Rizomatika. Intervista raccolta il 24 gennaio 2014.
Tutte le interviste pubblicate in lingua italiana a Luciana Parisi, Tiziana Terranova, Lapo Berti, Jussi Parikka, Saul Newman, Tony D. Sampson, Alberto Toscano e Simon Choat le potete trovare QUI
Leggi o scarica l'intera intervista di Paolo Godani in formato PDF QUI. Tutte le interviste sul populismo digitale in lingua italiana le potete leggere o scaricare QUI.
Masse, potere e postdemocrazia nel XXI secolo
'Fascismo di banda, di gang, di setta, di famiglia, di villaggio, di quartiere, d’automobile, un Fascismo che non risparmia nessuno. Soltanto il micro-Fascismo può fornire una risposta alla domanda globale: “Perchè il desiderio desidera la propria repressione? Come può desiderare la propria repressione?'
—Gilles Deleuze, Fèlix Guattari, Mille Piani, pg. 271
Masse, Potere, Post-democrazia nel XXI secolo: il fenomeno del populismo digitale. Intervista sul fenomeno M5S e sulle elezioni italiane del 24-25 febbraio 2013:
Sul micro-fascismo
OC Partiamo dall’analisi di Wu Ming, esposta nel breve saggio per la London Review of Books intitolato “Yet another right-wing cult coming from Italy”, che legge il M5S e il fenomeno Grillo come un nuovo movimento autoritario di destra. Come è possibile che il desiderio di cambiamento di buona parte del corpo elettorale sia stato vanificato e le masse abbiano di nuovo anelato - ancora una volta - la propria repressione ? Siamo fermi nuovamente all’affermazione di WilhelmReich: sì, le masse hanno desiderato, in un determinato momento storico, il fascismo. Le masse non sono state ingannate, hanno capito molto bene il pericolo autoritario, ma l’hanno votato lo stesso. E il pensiero doppiamente preoccupante è il seguente: i due movimenti populisti autoritari, M5S e PdL, sommati insieme hanno più del 50% dell’elettorato italiano. Le tossine dell’autoritarismo e del micro-fascismo perché e quanto sono presenti nella società italiana contemporanea ?
Paolo Godani Credo che la riflessione macropolitica, com'è quella di Wu Ming, e l'analisi micropolitica che voi proponete vadano svolte distintamente. Almeno formalmente, vanno considerate come piani differenti, avendo ognuno le proprie categorie e la propria organizzazione interna. La riflessione di Wu Ming e di altri dopo di loro (penso all'intervento recente di Alessandro Dal Lago, Clic. Grillo, Casaleggio e la demagogia elettronica, Cronopio 2013) riguarda l'esplicito – per questo fa uso delle stesse categorie di cui si nutre il dibattito politico ordinario e per questo riflette sulla ripartizione esplicita e globale del consenso così come si configura emblematicamente nelle elezioni politiche. Un'analisi micropolitica ignora invece le partizioni globali, perché rivolge la propria attenzione alle tendenze non immediatamente visibili, spesso inconsce, che attraversano l'intero campo sociale configurandolo diversamente da come appare ad un'analisi del discorso politico ordinario. In questo senso, è essenziale identificare le istanze microfasciste che attraversano la società italiana proprio perché esse si ritrovano anche là dove, secondo un'analisi macropolitica, non dovrebbero stare.
Risponderei dunque separatamente alla domanda circa l'autoritarismo e a quella riguardante i microfascismi.
Per quanto riguarda la prima, credo sia importante comprendere l'autoritarismo come fattore sistemico, piuttosto che come tendenza localizzata e contingente. Non è questo o quel partito o movimento ad essere autoritario, ma lo sono semmai i dispositivi di governo messi in campo nei paesi europei al tempo della crisi (per limitarci al presente). Autoritario è il fatto che le politiche di austerity, le privatizzazioni, il taglio della spesa sociale e della cultura etc., vengano imposte da governi in gran parte privi di legittimazione popolare. I casi della Grecia e dell'Italia sono emblematici, ma anche se si guarda alla Francia le cose non cambiano molto. Detto in breve, il fatto è che le forze politiche tradizionali, di destra come di sinistra, realizzano gli stessi programmi di politica economica, i quali dunque restano perfettamente indifferenti all'alternanza elettorale. È questa, credo, la ragione per cui in Grecia e in Italia come in Francia emergono movimenti politici antisistemici. Le ragioni per cui una parte rilevante di questi movimenti sono di estrema destra credo siano di due tipi: innanzitutto il fatto che quasi sempre l'altra parte non offre alcuna credibile alternativa di sistema; secondariamente, il fatto che nelle epoche di crisi (di una crisi che è sempre inseparabilmente economica e psichica), le uniche vie d'uscita che si percepiscono come reali si reggono su investimenti inconsci di carattere paranoico, i quali danno luogo a esiti di tipo reazionario o, al limite, suicidario.
I microfascismi, per come li comprendo, si radicano esattamente su questo terreno di investimenti paranoico-reazionari. Il che significa una cosa molto semplice: di fronte ad un problema posto dallo stato attuale delle cose, di fronte ad una sfida che implica una trasformazione delle proprie abitudini, delle categorie e delle pratiche consolidate, non si sta al gioco, non si cercano nemmeno le soluzioni o le mediazioni possibili, ma ci si ritira in se stessi, con la sensazione di essere accerchiati. L'arroccamento paranoico è uno schema tanto psicologico quanto economico e politico. E in ogni caso è il segno di un sentimento di debolezza profonda. Se si vogliono due esempi correnti: la chiusura delle frontiere di fronte ai fenomeni migratori; e l'ipotesi di “uscire dall'Euro” di fronte al problema degli squilibri della moneta unica e della concorrenza mondiale (ipotesi che non a caso assomiglia all'uscita dal mercato mondiale propugnata dalle ideologie fasciste). Chiaramente, sul piano politico il nazionalismo è sempre un ingrediente fondamentale di questo genere di microfascismi.
Se le cose stanno in questo modo, non è difficile vedere come di istanze microfasciste se ne trovino un po' da tutte le parti, dall'estrema destra all'estrema sinistra, passando ovviamente per quegli strani ibridi (pur assolutamente differenti tra loro) che sono la Lega Nord e il M5S.
1919, 1933, 2013. Sulla crisi
OC Slavoj Zizek ha affermato, già nel 2009, che quando il corso normale delle cose è traumaticamente interrotto, si apre nella società una competizione ideologica “discorsiva” esattamente come capitò nella Germania dei primi anni ’30 del Novecento quando Hitler indicò nella cospirazione ebraica e nella corruzione del sistema dei partiti i motivi della crisi della repubblica di Weimar. Zizek termina la riflessione affermando che ogni aspettativa della sinistra radicale di ottenere maggiori spazi di azione e quindi consenso risulterà fallace in quanto saranno vittoriose le formazioni populiste e razziste, come abbiamo poi potuto constatare in Grecia con Alba Dorata, in Ungheria con il Fidesz di Orban, in Francia con il Front National di Marine LePen e in Inghilterra con le recentissime vittorie di Ukip. In Italia abbiamo avuto imbarazzanti “misti” come la Lega Nord e ora il M5S, bizzarro rassemblement che pare combinare il Tempio del Popolo del Reverendo Jones e Syriza, “boyscoutismo rivoluzionario” e disciplinarismo delle società del controllo. Come si esce dalla crisi e con quali narrazioni discorsive “competitive e possibilmente vincenti”? Con le politiche neo-keynesiane tipiche del mondo anglosassone e della terza via socialdemocratica nord-europea o all’opposto con i neo populismi autoritari e razzisti ? Pare che tertium non datur...
PG Intanto bisogna aver presente che quando parliamo della crisi attuale ci riferiamo ad una molteplicità di fenomeni distinti.
C'è la contingenza della crisi economica mondiale esplosa nel 2008, dalla quale la maggior parte dei paesi sviluppati è uscita da tempo, e che può essere vista come una delle tante crisi cicliche che hanno scandito la storia del capitalismo.
C'è poi quella che alcuni chiamano, credo giustamente, crisi permanente e che si identifica invece con una trasformazione profonda del capitalismo riassumibile nella formula (che si deve a Carlo Vercellone ed è ripresa da Christian Marazzi nel suo Il comunismo del capitale, Ombre corte 2010) “divenire rendita del profitto”: alla caduta tendenziale del saggio di profitto (dovuta almeno in parte a meccanismi diversi e ulteriori rispetto a quelli analizzati da Marx), il capitalismo attuale risponde con una valorizzazione che avviene al di fuori dei processi produttivi, e precisamente attraverso la finanziarizzazione. Il che comporta una autonomizzazione del capitale dalle dinamiche sociali e politiche (cioè sia dai conflitti su quello che un tempo era il luogo della produzione di plusvalore, il lavoro, sia dalle mediazioni istituzionali), e dunque la costituzione di una cerchia ristrettissima di interessi privati capace di modificare i destini dell'economia globale.
C'è infine una crisi che colpisce l'Europa e forse, all'interno di questa, una crisi peculiare dell'Italia. Dell'immobilismo, del clientelismo, dell'evasione fiscale endemica etc., caratteristiche della situazione italiana, sappiamo tutto e non è il caso di soffermarvisi. Più interessante è il problema europeo, sia perché costituisce un esperimento politico che non ha precedenti storici (un'unione politica fondata solo su un'unione monetaria), sia perché il fallimento di questo esperimento potrebbe condurre a disastri di non poco conto (si può sospettare che se l'Unione europea era nata idealmente per evitare il riprodursi delle condizioni che hanno portato a due guerre mondiali, la sua dissoluzione rischia precisamente di rendere di nuovo attuali quelle condizioni), sia perché credo sia questo il terreno di coltura delle istanze fasciste di cui si diceva. Molto in breve: se un po' dovunque in Europa nascono movimenti nazionali che auspicano l'uscita del loro paese dall'Euro è perché quest'ultimo si identifica senza residui con le politiche neoliberiste di taglio alla spesa sociale, privatizzazioni, precarizzazione del lavoro e della vita, bassi salari etc. In questo senso, l'opposizione alle politiche economiche europee non ha alcunché di reazionario. Il fatto è che, accanto a questo primo elemento, ve ne è un secondo non meno rilevante: la strategia nazionale con cui la politica economica tedesca approfitta della situazione europea per accrescere la propria supremazia.
Naturalmente non ho ricette per rispondere alla vostra domanda “come si esce della crisi?”. Credo però che se l'analisi che ho cercato di abbozzare ha un qualche senso, se è vero per esempio che i nazionalismi demagogici e reazionari sono il segnale di un'impotenza di fronte all'autoritarismo che caratterizza il modo di governo dei paesi europei di fronte alla crisi (autoritarismo che è diretta conseguenza della trasformazione attuale del capitalismo di cui dicevo poco fa), allora l'unica possibilità che abbiamo è quella di combattere quell'autoritarismo cercando di aprire, ovunque sia possibile, spazi di conflitto per imporre partecipazione e decisione democratica. La paura che governa gli investimenti reazionari si sconfigge solo con la conquista reale di un cambiamento.
Le politiche socialdemocratiche fondate su una relativa redistribuzione delle ricchezze sono sempre state una sorta di mediazione asimmetrica: consentivano di mantenere la strutturale ineguaglianza di ricchezza e potere tra le classi sociali, garantendo però agli strati subalterni speranze di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Le lotte sociali hanno fatto leva, nella seconda metà del Novecento, sull'esistenza di questa mediazione. Anche quando avevano mire radicali, era il terreno del welfare quello sul quale innanzitutto potevano poggiare le lotte. Ora, ciò che è cambiato con la finanziarizzazione dell'economia è che gli Stati non sono più in grado di governare la distribuzione della ricchezza. Pertanto, la nostra necessità è di inventare gli strumenti capaci non più di distribuire, ma di appropriarsi di una ricchezza che è prodotta dalla cooperazione sociale, ma è interamente assorbita dai circuiti finanziari. Se, nel capitalismo novecentesco, la successione appropriazione/distribuzione era in buona parte nelle mani degli stati, così che su di essi era possibile far pressione affinché alla ricchezza appropriata seguisse una più equa distribuzione (secondo lo schema persino banale elaborato da Carl Schmitt), oggi il problema è semmai quello di costruire una potenza collettiva non statuale capace di agire direttamente e immediatamente sull'appropriazione della ricchezza, cioè di risocializzare ciò che la finanziarizzazione ha privatizzato.
Sull’organizzazione.
OC Daniel Guèrin nel suo “La peste brune” mostra come la conquista del potere di Hitler nella Germania del 1933 sia avvenuta grazie anzitutto a “micro-organizzazioni che gli conferivano un mezzo incomparabile, insostituibile per penetrare in tutte le cellule della società”. Il movimento di Grillo si è ramificato nella società grazie alla formula territoriale dei meet-up mutuata direttamente dal mondo politico statunitense, i meet-up di Howard Dean (http://www.wired.com/wired/archive/12.01/dean.html). Ma il M5S è altro ancora dai Meet-Up. E’ possibile tentare un’analitica dell’esplosione M5S come neo-vettore energetico in mutazione vorticosa (Fèlix Guattari l’avrebbe chiamato “il movimento assoluto della macchina-Grillo)? Quali sono le componenti, i fili, i flussi, i segmenti, gli slanci e le eterodossie della “macchina da guerra astratta” grillina ?
PG non vorrei sottovalutare il fenomeno M5S, ma credo che più che una macchina da guerra sia una sorta di catalizzatore che ha velocizzato (e semmai raccolto e concentrato) reazioni già in corso. In un certo senso, non c'è nulla di quanto dice Grillo che non fosse già nel dibattito politico (a parte forse alcune questioni legate all'innovazione della green economy, le quali però, non a caso, non sono certo tra le ragioni del successo elettorale del M5S). Le istanze anti-casta, ad esempio, erano in larga misura presenti nella pubblicistica della sinistra giustizialista da almeno un ventennio; l'opposizione allo jus soli era ed è un cavallo di battaglia della Lega e più in generale della destra italiana; l'opposizione alle politiche economiche europee attraversa variamente l'intero quadro politico. L'unica vera innovazione del M5S sta nell'aver portato in Parlamento della gente comune. Io credo francamente che questo sia un fattore positivo, soprattutto in un momento nel quale la democrazia sembra necessariamente sovradeterminata dalla cosiddetta “tecnica” economica.
Anche per quanto concerne il tipo di organizzazione del M5S, non mi pare ci siano innovazioni particolarmente rilevanti: semplicemente si utilizzano strumenti di comunicazione che possono apparire nuovi solo ad un ceto politico cresciuto prima della rivoluzione informatica...
Infine, anche la presenza di Grillo stesso come tribuno carismatico non mi pare brilli come grande novità, in un'epoca mediatica nella quale lo spettacolo politico ha bisogno di rappresentanti capaci di comunicare in maniera immediata e affettiva.
Un discorso a parte andrebbe fatto per i commenti al blog di Grillo, che indubbiamente manifestano molto spesso il più puro risentimento morale e sociale. Si tratta di un delirio autoreferenziale e paranoico che si esprime in molti casi analoghi (ne ha scritto Raffaele Donnarumma su Le parole e le cose a proposito dei blog letterari). Ma anche qui non c'è da stupirsi del delirio quando quasi tutte le vie che consentirebbero di evitarlo sono sbarrate. L'unico antidoto per questo genere di fenomeni è la discussione collettiva e la costruzione comune di un vocabolario e di un progetto nel quale la rabbia e la disperazione possano uscire dalla sfera individuale.
Credo che in fondo il M5S condivida con le forze politiche tradizionali due limiti di fondo che non gli consentono di scalfire in maniera effettiva quell'autoritarismo di cui si diceva: un'organizzazione virtuale che produce manifestazioni di massa solo come eventi (lo stesso problema, come si ricorderà, lo ha avuto anche il movimento noglobal), e una fiducia ottusa o opportunista, non saprei dire, nella democrazia rappresentativa.
Sulle onde anomale
OC Franco Berardi in un suo recente post sul sito di Micromega afferma che, con il voto del 24 febbraio 2013, la sconfitta dell’anti-Europa liberista comincia in Italia. Gli italiani, secondo la sua particolare lettura, avrebbero detto: non pagheremo il debito. Insolvenza. Che cosa è accaduto in Italia, secondo il vostro punto di vista, il 24 febbraio 2013? E poi, un recentissimo studio dell’Istituto Cattaneo - Gianluca Passarelli, il ricercatore - ha dimostrato che il M5S è il partito più “nazionale” delle elezioni del 24 febbraio; il suo scoring (0,90 sul top vote di 1,00) dimostra che il suo dato elettorale è il più omogeneo, nei termini di percentuale di voti, su tutto il territorio nazionale, più del PdL (0,889) e del PD (0,881). Ma come è potuto accadere ? (come è stato possibile che in quasi tre anni, dal 2010 al 2013, questo partito-movimento abbia potuto non solo competere, ma addirittura battere, macchine elettorali ben rodate quali quelle delle formazioni berlusconiane e della sinistra organizzata?)
PG Non so se Bifo abbia ragione a sperare che la sconfitta dell'Europa neoliberista sia cominciata. Quel che è ormai chiaro, a distanza di quasi un anno dalle elezioni, è che la vittoria elettorale inattesa e sconquassante del M5S è stata almeno per il momento rintuzzata da una coalizione volta alla conservazione.
Il momento decisivo per la situazione politica in Italia è stato certamente quello dell'elezione del presidente della repubblica. Non solo perché la rielezione di un presidente già molto anziano segnala icasticamente l'incancrenirsi della situazione italiana, ma soprattutto perché Napolitano è tornato ad essere presidente come una sorta di argine di fronte alla candidatura di Stefano Rodotà. Per quanto la votazione on-line dei candidati cinque stelle sia stata certamente una farsa dal punto di vista della rappresentatività, resta significativo che la preferenza sia caduta su un uomo politico e su un intellettuale che nulla aveva a che spartire con il populismo, la demagogia, il giustizialismo che sembravano caratterizzare il M5S. Si potrebbe dire che sia stata l'unica mossa azzeccata da Grillo (e infatti non è stata un'idea sua...). Anche perché quella candidatura (come per altri versi il “caso Prodi”) ha contribuito a mettere in luce le possibili fratture interne al Partito Democratico. Se non mi sbaglio, la candidatura Rodotà aveva fatto nascere qualche speranza anche in ambienti diversi da quelli che hanno votato M5S. Da cui l'amarezza ancora più profonda nel momento del ritorno all'ordine.
Infine, non credo ci sia troppo da stupirsi del successo elettorale del M5S. In fondo, è stato il movimento che meglio è riuscito ad incarnare una posizione oggettivamente esistente nel panorama politico: quella di chi si oppone alle politiche autoritarie dell'austerity o, quantomeno, quella di chi si sottrae al consenso sulla conservazione.
Sul popolo che manca
OC Mario Tronti afferma che “c’è populismo perché non c’è popolo”. Tema eterno, quello del popolo, che Tronti declina in modalità tutte italiane in quanto “le grandi forze politiche erano saldamente poggiate su componenti popolari presenti nella storia sociale: il popolarismo cattolico, la tradizione socialista, la diversità comunista. Siccome c’era popolo, non c’era populismo.” Pure in ambiti di avanguardie artistiche storiche, Paul Klee si lamentava spesso che era “il popolo a mancare”. Ma la critica radicale al populismo - è sempre Tronti che riflette - ha portato a importanti risultati: il primo, in America, alla nascita dell’età matura della democrazia; il secondo, nell’impero zarista, la nascita della teoria e della pratica della rivoluzione in un paese afflitto dalle contraddizioni dello sviluppo del capitalismo in un paese arretrato (Lenin e il bolscevismo). Ma nell’analisi della situazione italiana ed europea è tranchant: “Nel populismo di oggi, non c’è il popolo e non c’è il principe. E’ necessario battere il populismo perché nasconde il rapporto di potere”. L’abilità del neo-populismo, attraverso gli apparati economici-mediatici-spettacolari-giudiziari, è nel costruire costantemente dei “popoli fidelizzati” più simili al “portafoglio-clienti” del mondo brandizzato dell’economia neo-liberale: quello berlusconiano è da vent’anni che segue blindato le gesta del sultano di Arcore; quello grillino, in costruzione precipitosa, sta seguendo gli stessi processi identificativi totalizzanti del “popolo berlusconiano”, dando forma e topos alle pulsioni più deteriori e confuse degli strati sociali italiani. Con le fragilità istituzionali, le sovranità altalenanti, gli universali della sinistra in soffitta - classe, stato, conflitto, solidarietà, uguaglianza - come si fa popolo oggi ? E’ possibile reinventare un popolo anti-autoritario? A mancare, è solo il popolo o la politica stessa?
PG A me non piace il termine “populismo”. Su questo sono interamente d'accordo con Jacques Rancière che, in un articolo uscito su Libération, mostrava come la nozione di populismo fosse un dispositivo per la costruzione di una certa immagine del “popolo”, precisamente l'immagine del popolo come massa ignorante, costitutivamente preda dei propri istinti, nonché delle più stupide sirene demagogiche. Chi fa uso del termine populismo dovrebbe essere conseguente e affermare l'esigenza di un governo anti-democratico delle élites. Nessuno lo afferma come principio politico, perché sarebbe “scorretto”, ma è ciò che accade nelle nostre oligarchie rappresentative. Il risultato della retorica anti-populista non può che essere uno solo: l'assoggettamento al governo delle élites – perché solo quest'ultimo impedisce la deriva totalitaria a cui condurrebbe il popolo lasciato a se stesso.
Ora, naturalmente il popolo non è né buono né cattivo, per la banale ragione che (come dice ancora Rancière) il popolo non esiste. Il popolo come entità unica, massa unificata da qualche principio o tendenza, non esiste, ma esistono molti popoli in uno solo ed esistono molte immagini di che cosa sia un popolo. Per questa ragione, qualcuno ha pensato bene di non utilizzare più il termine “popolo”, sostituendolo con quello di “moltitudine”. Comunque ci si voglia rapportare al dizionario politico, è indubbio che la nozione di populismo ha la sua precisa funzione governamentale nella costruzione dell'immagine di un popolo unificato nelle sue tendenze più brutali e di conseguenza da assoggettare alla razionalità dell'economia e della rappresentanza politica. Se accettassimo queste conseguenze che l'uso della nozione di populismo porta con sé, toglieremmo le condizioni stesse non dico della rivolta o della rivoluzione, ma anche solo di una politica effettivamente democratica.
Il fatto che il popolo manchi – come Deleuze ripete a seguito di Klee – significa che ogni invenzione politica (come ogni invenzione artistica) si rivolge ad un popolo a venire, pretende la nascita di un popolo nuovo. Forse, opporsi all'uso della nozione di populismo è anche questo: riferirsi ad una nuova immagine del popolo.
Sulle società di controllo
OC Gilles Deleuze nel Poscritto delle Società di Controllo, pubblicato nel maggio del 1990, afferma che, grazie alle illuminanti analisi di Michel Foucault, emerge una nuova diagnosi della società contemporanea occidentale. L’analisi deleuziana è la seguente: le società di controllo hanno sostituito le società disciplinari allo scollinare del XX secolo. Deleuze scrive che “il marketing è ora lo strumento del controllo sociale e forma la razza impudente dei nostri padroni”. Difficile dargli torto se valutiamo l’incontrovertibile fatto che, dietro a due avventure elettorali di strepitoso successo - Forza Italia e Movimento 5 Stelle - si stagliano due società di marketing: la Publitalia 80 di Marcello Dell’Utri e la Casaleggio Asssociati di Gianroberto Casaleggio. Meccanismi di controllo, eventi mediatici quali gli exit polls, sondaggi infiniti, banche dati in/penetrabili, data come commodities, spin-doctoring continuo, consensi in rete guidati da influencer, bot e social network opachi, digi-squadrismo, echo-chambering dominante, tracciabilità dei percorsi in rete tramite cookies, queste le determinazioni delle società post-ideologica (post-democratica?) neoliberale. Le miserie delle nuove tecniche di controllo rivaleggia solo con le miserie della “casa di vetro” della trasparenza grillina (il web-control, of course). Siamo nell’epoca della post-politica, afferma Jacques Ranciere: Come uscire dalla gabbia neo-liberale e liberarci dal consenso ideologico dei suoi prodotti elettorali? Quale sarà la riconfigurazione della politica - per un nuovo popolo liberato - dopo l’esaurimento dell’egemonia marxista nella sinistra ?
PG Indubbiamente il marketing ha una funzione essenziale nelle società contemporanee, con la sua pretesa non solo più di dirigere, ma di produrre pratiche sociali e stili di vita. Non c'è dubbio che le maglie del potere attuale siano molto più ramificate di quanto già non fossero all'epoca del capitalismo industriale e della società disciplinare. Conserverei però il principio in base al quale nessuna forma di dominio è mai interamente padrona dei suoi mezzi. Considerare come onnipotenti i dispositivi del dominio conduce senz'altro all'impotenza, piuttosto che alla ricerca di vie di fuga o di nuove armi per la rivolta.
Quando Rancière parla della fine della politica non sta certo assumendo in proprio questa diagnosi, ma sta dicendo che esiste un certo regime discorsivo dominante che vuole farla finita con la politica, cioè con il dissenso radicale e con il conflitto sociale, con l'utopia egualitaria e con l'idea di una vita nuova comune. E sta dicendo che questo regime discorsivo non si distingue, al fondo, dall'auspicio di coloro che pretendono una politica puramente tecnica, come gestione ordinaria e razionale, separata dalle malsane idee di chi invece intende la politica come trasformazione dell'esistente, come rottura dell'ordine costituito e produzione di dissenso. La politica intesa come produzione di dissenso è certamente di natura evenemenziale: ad un certo momento e in un luogo specifico un soggetto politico nuovo emerge ad organizzare il campo della rivolta. Come tutti gli eventi, anche quelli politici presentano un ampio margine di aleatorietà: non solo è difficile prevederli, ma è quasi impossibile produrli in maniera volontaristica. Ciò che si può fare, credo, è osservare con attenzione estrema i piccoli spostamenti, le tensioni, le microfratture che si producono costantemente e che per ragioni difficilmente ponderabili potrebbero tra poco fare massa.
Nello stesso testo di Deleuze che citate, si nota come il capitalismo attuale non sia più costruito in funzione della produzione, ma del prodotto, della vendita e del mercato, e si sottolinea come il soggetto subalterno non sia più né l'uomo rinchiuso né il lavoratore sfruttato, bensì l'uomo indebitato. Queste analisi vanno nella direzione di quel divenire rendita del profitto di cui si diceva sopra. Si tratta di uno stesso processo di trasformazione del capitalismo che corrisponde alla trasformazione del lavoro e della produzione (la crescita della cooperazione sociale, la produzione immateriale, la messa al lavoro della vita, degli affetti etc.), e a cui non può non corrispondere una trasformazione delle strategie politiche conflittuali.
Ma bisogna fare un passo ulteriore. Non si tratta di continuare a pensare nella logica di uno scontro frontale tra potere e contropoteri, né basta capovolgere lo schema suggerendo (come fa certo post-operaismo italiano) che le ristrutturazioni capitalistiche rispondono alle innovazioni portate dalla cooperazione sociale e dal conflitto di classe. Bisogna essere consapevoli, come lo era Marx, che lo sviluppo del capitalismo ha destato potenze sociali, tecnologiche, produttive, inventive etc. che nessuna altra formazione sociale aveva prodotto. E bisogna sapere, al contempo, che lo stesso sviluppo capitalistico che desta quelle potenze fa poi di tutto per tenerle a bada, per metterle al servizio di una logica miope e distruttiva, per produrre, insieme ad una ricchezza immensa, un'immensa miseria. Per uscire dalla gabbia neoliberale è necessario questo passo doppio: essere pienamente contemporanei del nostro tempo, accogliere tutto della modernità capitalistica, e sapere al contempo che la fase attuale del capitalismo può essere la base materiale per la nascita di una società post-capitalista. Bisogna essere all'altezza del proprio tempo per poterlo superare. In questo senso, sono in perfetta consonanza con quanto scrivono Nick Srnicek e Alex Williams nel loro Manifesto for an accelerationist politics.
Paolo Godani, italiano, filosofo, è stato assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa, cattedra di Estetica. Ora è ricercatore presso l’Università di Macerata. Gli ambiti e le tematiche di ricerca sono: filosofia contemporanea, estetica e filosofia teoretica. Gli autori di cui si è occupato, in modo particolare, sono Heidegger, Nietzsche, Schmitt, Bergson e Deleuze. Tra i libri pubblicati, ricordiamo Il tramonto dell’essere. Heidegger e il pensiero della finitezza (ETS, Pisa 1999), Estasi e divenire. Un'estetica delle vie di scampo (Mimesis, Milano 2001), L’informale. Arte e politica (ETS, Pisa 2005), Bergson e la filosofia (ETS, Pisa 2008) Deleuze (Carocci, Roma 2009). Ha curato in collaborazione con Delfo Cecchi, Falsi raccordi. Cinema e filosofia in Deleuze, (ETS, Pisa 2007); con Dario Ferrari, La sartoria di Proust. Estetica e costruzione nella Recherche (ETS, Pisa 2010). Ha tradotto e curato: Jacques Rancière, Il disagio dell'estetica (ETS, Pisa 2009), Pierre Macherey, Da Canguilhem a Foucault. La forza delle norme (ETS, Pisa, 2011). Di prossima pubblicazione per i tipi di Derive e Approdi, Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo (in uscita a maggio 2014).
Painting: Stelios Faitakis - We can manage on our own (2012)