Mario Tronti: La sinistra e il leader
@ Unità, 11 settembre 2013
Come si esce dal ventennio berlusconiano? La domanda corretta è: come si «deve» uscirne? Va presentata una proposta di percorso, che si proponga di eliminare la causa e però anche le conseguenze di una lunga fase di crisi della politica.
Non basta abbattere la statua del profanatore, perché tutto ritorni a posto. Il berlusconismo è la veste antropologica di tutto quanto è stato definito seconda Repubblica, nell’età neoliberista: populismo privatistico, individualismo possessivo e quel grido «maledetto sia il pubblico», che è risuonato dall’alto e si è diffuso in basso. Le formule le conosciamo: «ci penso io», di un uomo solo al comando; e la risposta corrispondente della folla solitaria: «mi salvo da solo» e tutti i mezzi sono leciti. Come dice il poeta, attenzione, il ventre che ha generato tutto questo è ancora fecondo. Stia in guardia il campo antiberlusconiano a non produrne una variante progressista.
Quando si tratta di voltare pagina, vengono sempre avanti i più realisti del re: così va il mondo, non c’è che adattarsi, i segni dei tempi vanno ubbiditi, non contrastati. La «gente» vuole un capo che parli direttamente al popolo, senza di mezzo il disturbo di un partito. Che cos’è infatti un partito? Una fastidiosa sede di mediazioni politiche, con il peso di una memoria, di una storia, di una tradizione, di una cultura, o anche di più culture, tutte vecchie cose da rottamare. Vogliamo dirlo, vogliamo farlo capire, che anche questo è frutto di berlusconismo? C’è un punto da prendere in considerazione seria, da assumere come problema, che vuole una soluzione. La domanda politica che sale dal Paese è confusa. L’instabilità di governo, e delle istituzioni in genere, è il riflesso di un’instabilità dell’opinione, in gran parte subalterna a ondate mediatiche, niente affatto spontanee, anzi ben dirette. Un’opinione deviata da due decenni di lotta politica personalizzata, che riproduce personalizzazione allargata, a sempre più alto livello demagogico. Questa volatilità di massa, qualunque sia l’occasione elettorale, non da una posizione all’altra, ma da un personaggio all’altro, è un tema critico da porre a tutte le forze politiche. Si sconta qui oggi il devastante azzeramento di riferimenti forti, sociali, culturali, ideali. A chi giova questo, se non a chi se ne sta tranquillo in questo modo nelle più tradizionali posizioni di vero potere?
Quello che voglio dire è che, a questo punto, la cosa importante, non è certo quella di correre dietro a una domanda confusa, piuttosto quella di presentare un’offerta chiara. Va riordinata, ricostruita, rimotivata l’offerta politica. Ecco il tema vero del congresso di un partito di popolo. Certo che ci vuole la figura del leader. E bene ha posto la questione su queste colonne Ciliberto. Nessuno vuole negare la necessità della figura che fa sintesi di un gruppo dirigente e identifica, anche a livello di opinione, l’immagine di un soggetto politico. Ma qual è il leader necessario? Quello che mostra di saper rappresentare una storia, di saper guidare una comunità, di saper tenere in pugno la complessità dei problemi, di saper progettare l’agire di migliaia di militanti, e questo per qualità, per competenza, per esperienza? O è quello che i sondaggi dicono che potrà vincere alle prossime elezioni? Un grande discorso strategico, costruttivo, mobilitante, sarebbe una critica di queste democrazie contemporanee, ridotte a puro rito elettorale. È proprio impossibile introdurre democrazia, cioè cura dell’interesse pubblico e gestione comune dei beni, che sia attraente, e coinvolgente e conveniente, nella vita quotidiana dei rapporti sociali, dei rapporti civili, dei rapporti di lavoro, delle relazioni di genere, delle relazioni con la natura? Non può diventare questa l’identificazione della sinistra da parte del suo popolo, invece di questa ricerca ossessiva di quello lì con cui «si vince», personaggio contro personaggio? Questo è un tempo in cui è saltata la differenza tra la chiacchiera e il pensiero. Non solo politica-spettacolo, ma cultura-spettacolo. Si spendono risorse per festival di piazza su qualunque cosa, per soddisfare la domanda di ceto medio riflessivo, e non c’è un euro per far vivere centri studi e di ricerca per la formazione di una nuova generazione di intellettuali politici, investimento per la produzione di vere, serie preparate classi dirigenti. Non c’è consapevolezza che l’uscita dalla crisi politica è altrettanto drammaticamente urgente dell’uscita dalla crisi economica. Non sono da sottovalutare le ragioni del consenso. Ma si vorrebbe un consenso, e la richiesta di consenso, su motivazioni di ragioni collegiali e non di emozioni individuali. Queste vanno e vengono e, ripeto, sono pericolosamente esposte alla manipolazione interessata di chi ha la proprietà che oggi più conta, in questo campo, quella dei grandi mezzi di comunicazione. Una distorsione emotiva, basata su messaggi demagogico-plebiscitari, avveniva di solito nelle competizioni generali, nella moda del direttismo democratico. Si sta introducendo, a forza, nella competizione di parte, di partito. Perché ora l’ultima ridotta da conquistare è l’ultimo partito politico rimasto. E per come era cominciata la narrazione del dopo ’89, sembra proprio che si sia trovato il lieto fine.
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