sabato 9 dicembre 2017

Luigi Azzariti-Fumaroli :: Pierre Klossowski all’ultimo respiro @ Alfa+ 06.12.2017


Maurice Nadeu, in un ampio studio sul romanzo francese del dopoguerra tradotto da Schwarz nel 1961, scrivendo di Pierre Klossowski notava com’egli, nato «teologo, esegeta di Sade, coltivatore dell’eresia e mistico dell’erotismo», fosse approdato al romanzo «quasi per caso». Klossowski aveva infatti atteso alla Vocazione sospesa (1950), alle Leggi dell’ospitalità (1964) e al Bafometto (1965), non già volendosi provare in un genere al quale fino ad allora era rimasto estraneo. Sua intenzione era piuttosto quella di ricercare, vagliando ogni mezzo espressivo, un linguaggio capace di accedere a una logica né oppositiva né identitaria, quanto definibile per mezzo di una libera unità dei differenti. Se quest’ultima – come Klossowski stesso sostiene nella Rassomiglianza (Sellerio 1987) (seguendo peraltro un’interpretazione che della sua opera aveva offerto nel ’64 il Michel Foucault dedicatario del Bafometto) – perviene a espressione in forza di un simulacro che mette in scena un dire che afferma «tutto simultaneamente e simula senza fine l’opposto di ciò che dice», è pur vero che anche questa volontà di assumere la realtà come perenne occasione di ricorrenza dell’irreale deve lasciare il passo a un movimento di discorso capace unicamente di «soffiare», ovvero di effondersi e disperdersi, «sparpagliando l’atto di scrivere» e le voci che lo compongono. 
«Il soffio – scrive Klossowski – altro non è che spazio diafano a tal punto da credere interno a se stesso tutto ciò che gli accade». Più esattamente, si tratta – lo si evince da una lunga lettera di Klossowski al suo biografo, Jean Decottignies, opportunamente pubblicata in appendice alla nuova edizione del Bafometto curata da Giuseppe Girimonti Greco per Adelphi e che sostituisce quella, ormai introvabile, edita da Sugar nel ’66 – della condizione in cui versa chi, nella misura più intrinseca possibile, «come Teresa d’Avila» vive nel corpo la vicinanza dello spirito. Da questo punto di vista la sontuosità barocca del Bafometto, più che riprendere i motivi di uno gnosticismo temperato dall’esperienza nietzscheana dell’eterno ritorno, come parve a Maurice Blanchot, si porrebbe in ascolto della domanda che assilla il discorso mistico: «che cos’è il corpo?», onde farla ammutolire. In luogo della successione dei «corpi fogliati» della tradizione mistica cristiana, s’impone perciò «una successione delle metamorfosi che i soffi vengono via via a mimare», e che dà luogo a un’azione narrativa in tutto simile a uno spettacolo teatrale in cui, dietro i paludamenti trecenteschi di una leggenda templare che mescola perversione e trascendenza, si rappresenta una declamazione «emozionale», vocata non già ad elicitare le lacrime, ma – ha scritto Gilles Deleuze – a fare spazio alla «pura mozione o puro spirito». 
Il nome Bafometto, la cui etimologia – si apprende dal catalogo della mostra allestita nel 2007 alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia da Angela Vettese e Raffaella Baracchi, per celebrare il travagliato sodalizio che, auspice il romanzo del 1965, unì Klossowski e Carmelo Bene (che Il Bafometto avrebbe voluto mettere in scena, nel 1998, in occasione della Biennale Teatro) – rimanderebbe a un rito iniziatico (un «battesimo di sapienza», come suggerisce l’unione delle parole greche baphe e metis), al nome latinizzato di Mahomet o ancora a un’espressione che in arabo significa «padre dell'ignoto»; ma da Klossowski viene risemantizzato per sancire la propria «differenza d’intensità costitutiva» rispetto a ogni altro nome. «Non esiste – dichiara, volendo revocare la propria unicità corporea come la propria identità personale, l’idolo eponimo – nessun nome proprio che possa resistere al soffio iperbolico del mio». Esso soltanto può rivelarsi attraverso una sorta di mimologismo dell’espirazione completa. Ossia ricorrendo ad una forma di evocazione, che, ricordando la lezione di Charles Nodier consegnata all’Examen critique des dictionnaires de la langue françoise (1829), conduce a considerare l’insieme delle condizioni respiratorie del gesto vocale, in modo da vivere le parole «respirandole». Si otterrà così una nuova affinità con le parole, le quali, trovandosi accordate al fiato, potranno assumere il loro esatto valore sonoro solo alla fine del respiro. 
Lo attesterebbe la parola «âme», del cui cangiante percorso attraverso lo spazio e il tempo Il Bafometto illustra emblematicamente la sfrenata fenomenologia. È questa infatti una delle rare parole che esauriscono un’espirazione. Per percepirla meglio dovremmo immergere tutto il nostro essere nel silenzio, concentrandoci unicamente sul nostro soffio, affinché il rumore non sia più che un soffio, un leggero soffio. Annotava nel 1943 Gaston Bachelard nella Psicanalisi dell’aria (Red Edizioni 2007) che «mentre ci abbandona, l’anima di questo soffio, la si ode dire il suo nome, la si ode dire âme. La a è la vocale sospirata e la parola âme imprime un po’ di sostanza sonora sulla vocale sospirata, un po’ di sostanza fluida che dà un certo realismo all’ultimo respiro».
Pierre Klossowski
Il Bafometto
traduzione di Giuseppe Girimonti Greco

Dalla terza di copertina / Adelphi

Tra le accuse infamanti rivolte ai Cavalieri Templari nel corso del processo a loro intentato dall'Inquisizione nei primi anni del Trecento c'erano quelle di sodomia, eresia e idolatria; veneravano, si disse (e li si costrinse a confessare sotto tortura), un idolo oscuramente legato alla tradizione gnostica e a pratiche alchemiche, nonché alla simbologia del Graal e al Femminino Sacro: il Bafometto. Da allora, questa figura alata e munita di corna, dai tratti somatici bestiali e androgini (il cui nome ha un'origine quanto mai incerta), è stata ripresa, usata e sfruttata da occultisti di ogni tipo e, come le storie dei Templari in genere, ha dato origine a una proliferante letteratura romanzesca. Agli antipodi di tutto ciò, Klossowski ci regala, con l'ultimo romanzo da lui scritto, un'opera che è un azzardo visionario, dove i personaggi, prima ancora di avere un nome, sono «soffi», ovvero potenze invisibili che occasionalmente diventano corpi tangibili e abitano un Medioevo fantasmatico – per poi spostarsi, con un capovolgimento del tutto inatteso, nel 1964, sulle rive della Senna, in una stanza destinata a strani rituali, dove li ritroviamo di nuovo sotto forma di «soffi». Ciò che avviene nel Bafometto è l'abbandono al mondo ridivenuto favola, dove il passato è intercambiabile con l'attuale – e dove forse la storia dei Templari è il massimo di attualità possibile. E c'è tutto il sulfureo universo klossowskiano, in cui si mescolano erotismo e sacralità, perversione e trascendenza: perché ciò che rende «stupefacente» l'opera di Klossowski, ha scritto Deleuze, è proprio «l'unità di teologia e pornografia ... qualcosa che chiamerei pornologia superiore».

mercoledì 6 dicembre 2017

Andrea Fumagalli @ Effimera :: In ricordo di Lapo Berti (1940 -2017)



E' con un dolore enorme che postiamo questo bel ricordo di Lapo Berti, amico, complice e compagno di Obsolete Capitalism e Rizosfera. Scomparso il 2 dicembre scorso, a Roma.

Lapo Berti fa parte dei tanti militanti che hanno dedicato la propria vita alla ricerca della verità (nel senso di “parresia”) – una compagine oramai rara ai giorni nostri, così presi della performatività dell’apparire. Ha partecipato ai principali avvenimenti della rottura culturale degli anni Sessanta fino gli anni Novanta. Nato nel 1940, a Milano, è vissuto a Firenze, poi di nuovo a Milano e infine a Roma. A Firenze, insieme a Claudio Greppi, si era legato al circolo “Giovanni Francovich”. Visse appieno l’intera esperienza, fondamentale per l’operaismo italiano, della rivista “Classe operaia”. Pur legato più a Mario Tronti che a Toni Negri, non ebbe il minimo dubbio nel momento della scelta (per la verità dubbi ne aveva molti, per carattere: ma sapeva scegliere). Partecipò all’intero ciclo di “Potere operaio”, dalla costruzione (quella veneto-emiliana, per intenderci) fino alla conclusione (convegno di Rosolina). Lapo ha insegnato all’università senza neppure essere laureato. Ha un antenato illustre, Claudio Napoleoni. Gli riuscivano cose apparentemente impossibili. Nella struttura di Potere Operaio ebbe anche un ruolo dirigente, non di semplice adesione ideologica. Con Ferruccio Gambino divideva la responsabilità del settore internazionale; in Germania l’operaismo è penetrato nell’elaborazione del pensiero antagonista anche grazie al suo intervento appassionato. Dopo la parabola di Potere Operaio, è stato uno degli animatori della rivista Primo Maggio, partecipando al gruppo di studio sulla Moneta, con Christian Marazzi, Roberto Convenevole, Franco Gori e Sergio Bologna e più avanti Riccardo Bellofiore. Ha prodotto teoria sull’idea che la creazione di moneta – come moneta credito – fosse in ultima analisi, nonostante il monopolio di emissione della Banca Centrale, un fattore endogeno alla dinamica dell’economia capitalistica. Ha partecipato al seminario sulla Moneta animato nei tardi anni Settanta da Augusto Graziani con Marcello Messori, Roberto Convenevole, Riccardo Farina, Lilia Constabile, contribuendo allo sviluppo della Teoria del circuito monetario (insieme a quella della règulation francese, le uniche capaci di concepire una teoria economica in grado di essere un antidoto all’egemonia monetarista dell’epoca). È stato uno studioso dei classici, in primo luogo Marx, e poi Schumpeter. Del primo ha divulgato l’idea che la moneta non è altro che un rapporto sociale, ovvero strumento del dominio del capitale sul lavoro. Del secondoci ha tramandato (oltre alla traduzione di Teoria dello sviluppo economico – Sansoni Editore, 1971, nuova ed. 2013, a cura di Rizzoli), la seminale, ma parziale, traduzione dell’opera schumpeteriana più misconosciuta – Das Wesen des Geldes (L’essenza del denaro), importante per comprendere il ruolo di discriminazione che è insito nel potere del denaro. Concetti che oggi, nell’era del capitalismo cognitivo finanziarizzato, sono più che mai attuali. Ha inoltre curato l’edizione di Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione di Ludwig von Mises, de L’equilibrio monetario di Gunnar Myrdal e ha tradotto la Teoria economica del credito di L. Albert Hahn, tutti testi che contribuirono non poco negli anni Ottanta alla discussione sulle teorie monetarie eterodosse. Negli anni Novanta si è interessato alle trasformazioni del processo di valorizzazione nella fase del capitalismo post-fordista. È stato membro della redazione di Altreragioni, primo ambito di rivitalizzazione del pensiero economico operaista di fronte alle nuove forme di organizzazione del lavoro e della globalizzazione, un passaggio cruciale per cogliere lo sviluppo dell’Italian thought di oggi. Non a caso è in quell’ambito che vengono sviluppate le prime analisi critiche da parte del pensiero dell’Autonomist marxism sul processo di costruzione dell’Unione Monetaria Europea, riflessioni che vedono la luce, oltre che sul n. 2 di Altreragioni, nel volume collettaneo L’Antieuropa delle monete (Manifestolibri, Roma, 1992). Da metà degli anni Novanta sino alla pensione ha lavorato all’Antitrust, prima con un contratto biennale e poi in modo stabile, dopo una buona parte dell’esistenza passata in condizione precarie (si direbbe oggi), anche come scelta di coniugare spirito di militanza ed etica di vita. Pur in un ambiente non facile (istituzionalizzato), ha continuato a denunciare le storture del mercato come luogo di concentrazione del potere economico, in controtendenza con l’idea neo-liberale del mercato come luogo di pari opportunità. In questo periodo, non a caso ha pubblicato Il mercato oltre le ideologie (Università Bocconi, 2006) e Le stagioni dell’antitrust. Dalla tutela della concorrenza alla tutela del consumatore (con Andrea Pezzoli) (Università Bocconi, 2010).

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