sabato 27 giugno 2015

INTERVISTA A FRANCO MOTTA SU «ELOGIO DELLE MINORANZE»: Parte X :: Sul potere delle minoranze - (tratto da Archeologia delle minoranze: Intervista con Franco Motta - uscita prevista Settembre 2015)


Sul potere delle minoranze 



Obsolete Capitalism :: Non ritiene che le minoranze, soprattutto nel campo spirituale, esprimano un potenziale di riscatto e redenzione sociale e politica di notevole portata? Citiamo, a solo titolo d’esempio, il caso dei cristiani e il loro proselitismo tra la classe degli schiavi nell’Impero Romano dei primi secoli dell’Era volgare oppure il caso dei musulmani nella società indiana, quando la parola del Profeta fu l’occasione per milioni di ‘outcast’ di affrancarsi dal regime delle caste e dalla schiavitù della contingenza. Voi affrontate tale questione nel capitolo del vostro libro dedicata ai ‘riformatori’ del Cristianesimo in Italia: perché in Italia non è accaduto un fenomeno analogo, assumendo l’esistenza nella nostra penisola di milioni di poveri e diseredati nel corso del XVI e XVII secolo?


Franco Motta :: Alcune realtà storiche sono più sensibili a un programma di riforma di matrice religiosa, altre meno. Alcuni contesti si alimentano alla fonte della religione, altri a quella della politica, altri ancora al primato dell’economia. Non saprei come inquadrare altrimenti questo tema, che pure giustamente ponete. L’Italia del Quattro-Cinquecento era considerata dalle culture prossime un paese di atei; che sia stato un portato del paganesimo rinascimentale o della reazione al sistema di potere della Chiesa non saprei dire: fatto sta che il messaggio religioso della Riforma in Italia fu sempre mediato da istanze di natura politica e, in senso lato, culturale, e fu su questo terreno che esso perdette la sua battaglia, allorché le aristocrazie e i patriziati si schierarono con la Chiesa romana su basi di reciproco interesse. Il potere del discorso religioso non ha mai avuto in Italia quello spessore che ha avuto in Germania, negli Stati Uniti o in tanti paesi slavi, come la Serbia e la Polonia. Nemmeno la paradigmatica campagna elettorale del 1948, quella delle madonne piangenti, fu uno scontro fra religione e irreligione, malgrado le forme in cui essa si presentava, ma fra appartenenze locali, esperienze di emancipazione e di consuetudine, prossimità partitiche e comunitarie. 

Non che il successo della Riforma in Germania o nei Paesi Bassi sia stato privo di fattori politici ed economici, sia chiaro. Resta però il fatto che l’attenzione diffusa alle implicazioni teologiche del luteranesimo e del calvinismo trovò terreno più fertile in quei paesi che non nel nostro. L’impegno caritativo della Chiesa cattolica fu senza dubbio un elemento fondamentale della sua presa sugli strati inferiori della società, dal XVI al XIX secolo, ma questo, a mio parere, non chiude la questione. Ci sono culture intimamente religiose e altre che non lo sono: la Cina è un lampante esempio di cultura irreligiosa – cioè non dominata da imperativi morali di ordine religioso – che ha costruito la propria identità sul primato dell’appartenenza comunitaria e, al tempo stesso, del successo economico. 


Negli Stati Uniti, al contrario, il successo economico è intimamente legato all’identità religiosa protestante. Per scandagliare efficacemente l’influenza di questi elementi occorrerebbe un ambizioso lavoro comparativo che trascende i limiti della nostra ricerca. Ma che varrebbe comunque la pena di tentare.

( Fine dell'intervista )

Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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Elogio delle minoranze

Le occasioni mancate dell'Italia 

Elogio delle minoranze
Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.

venerdì 26 giugno 2015

INTERVISTA A FRANCO MOTTA SU «ELOGIO DELLE MINORANZE»: Parte IX :: Sulle continuità e le differenze - (tratto da Archeologia delle minoranze: Intervista con Franco Motta - uscita prevista Settembre 2015)

Sulle continuità e le differenze


Obsolete Capitalism :: Nel vostro libro confrontate dialetticamente la continuità della "lunga durata conservatrice" con le discontinuità discrete generate dai contrappunti delle "minoranze positive". Discontinuità è differenza. Le figure e le determinazioni delle discontinuità non sono così facili da individuare per la storia in generale, soprattutto se esse non generano macro-eventi come il 1917 e il 1968 per rimanere al "secolo degli estremi". Come avete deciso di ritagliare, anche arbitrariamente, la linea maggioritaria della continuità e le corrugazioni delle differenze? 



Franco Motta :: L’identificazione delle discontinuità rivoluzionarie-riformiste è stata una naturale conseguenza dell’accezione di élite cui abbiamo fatto ricorso. Il riscontro di “possibilità” di mutamento nella storia italiana ne è stata per così dire la chiave euristica: quali minoranze hanno raggiunto quel livello critico che avrebbe permesso loro di diventare élite egemoniche? È su questo piano, che a mio parere resta un piano definito da coordinate per quanto possibile oggettive – l’effettiva penetrazione nella società, le potenzialità dei progetti di mutamento, la presenza di istanze analoghe in altre realtà europee –, che abbiamo individuato quelle «corrugazioni» di cui parlate. Livelli orografici, mi verrebbe da dire, percepibili a distanza.

Partiamo da un dato: da quasi un secolo, dalle «Annales» in poi, l’idea che il decorso storico possa essere determinato da “bivi”, da scarti, da congiunture nelle quali si riassumono e si confrontano percorsi diversi, giungendo a risoluzione repentina nella vittoria dell’uno o dell’altro, non è più seriamente argomentabile. La storia controfattuale può essere un interessante terreno di sperimentazione di modelli, ma non un terreno di ricerca storica. Ciò detto, le minoranze che abbiamo preso in esame sono state il portato di percorsi pluridecennali, quando non secolari, di sviluppo e di evoluzione di forze che a un certo punto hanno condensato una massa critica – culturale, politica, economica – tale da permettere loro di influenzare l’evoluzione del contesto storico nel quale si muovevano. I galileisti non nacquero certo sull’onda del  Sidereus nuncius o della politica accademica di Galilei; dietro di loro agivano storie multiple, e non sempre omogenee, come quella del platonismo rinascimentale e dell’empirismo naturalistico dei gabinetti di meraviglie del tardo Cinquecento. Allo stesso modo, gli igienisti dell’età positivista ereditarono le pulsioni del socialismo non marxista, fourierista, ad esempio, e quelle dell’anticlericalismo risorgimentale.


In questa prospettiva possono essere individuate altre visibili corrugazioni che non abbiamo preso in esame: la costellazione resistenziale che rimanda all’esperienza di «Giustizia e libertà» ne fa parte, come pure quella dei radicali italiani fino a tutti gli anni Settanta. Se dovessi pensare a casi più recenti mi rifarei al movimento altermondialista della fine degli anni Novanta del XX secolo, che pure fu un’élite progressiva in nuce, ancora lontana però – se non altro per l’assenza di un pensiero forte di riferimento – dalle potenzialità egemoniche che credo definiscano un’élite rivoluzionaria vera e propria. Se dovessi ragionare sull’immediato presente citerei il movimento per i diritti animali, che tuttavia, allo stato attuale, denuncia un’eterogeneità d’azione che rischia di renderlo ancora a lungo marginale nel discorso pubblico.   ( segue QUI )


Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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Elogio delle minoranze

Le occasioni mancate dell'Italia 

Elogio delle minoranze
Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.


giovedì 25 giugno 2015

INTERVISTA A FRANCO MOTTA SU «ELOGIO DELLE MINORANZE»: Parte VIII :: Sulle varianti diacroniche - (tratto da Archeologia delle minoranze: Intervista con Franco Motta - uscita prevista Settembre 2015)

Sulle varianti diacroniche



Obsolete Capitalism :: Seguendo il vostro schema interpretativo di 'Elogio delle minoranze', un nucleo di potere retrivo si è auto-conservato evolvendo nei secoli, dominando di fatto la società italiana, grosso modo dal XVI secolo fino ai giorni nostri. Da Bellarmino a Berlusconi, si è trattato dunque di una co-evoluzione di élite / oligarchie che potremmo definire ‘varianti diacroniche’ di uno stesso sistema di potere. Perché tale processo evolutivo non ha interessato le minoranze virtuose da voi presentate nel libro? Questo quesito, ci pare di capire, non ha attraversato la vostra ricerca. Perché? 


Franco Motta :: In realtà non abbiamo ritenuto di poter contrapporre una continuità conservatrice e una variabilità progressiva nella storia italiana, quantomeno da un punto di vista fenomenologico. Del resto sarebbe difficile trovare qualcosa che formalmente unisca il cardinale Bellarmino a Berlusconi, se non altro perché il primo è un santo e il secondo un malvivente (il che, peraltro, non ha impedito alla Chiesa di riservare onori all’uno e all’altro).

Le oligarchie, le minoranze di conservazione, hanno segnato a volte una discontinuità di forme e di modi anche maggiore di quanto non sia stata quella delle minoranze di progresso: basti pensare, per citare un esempio più che noto, all’idea di statualità – autoritaria, classista, corporativa, ma pur sempre statualità – che permeava il regime fascista e al profondo rigetto della funzione dello Stato che caratterizza l’evoluzione del fascismo nella sua variante berlusconiana. Il fascismo, del resto, è proteiforme, e fa di questa sua capacità uno dei suoi grandi punti di forza. Ma se ci volgiamo ad analizzare la sostanza del discorso conservatore allora, a mio parere, questa multiformità tende a scolorire. La policromia fenomenologica del polo conservatore non deve essere scambiata per vigore evolutivo: per abilità mimetica, semmai. Dalla Controriforma alla Seconda repubblica sono mutate le parole e le fisionomie: non il discorso, non l’identità profonda del parlante.

Provo a rovesciare il discorso. Ho cercato poco fra di abbozzare una grammatica minima, o meglio un lessico minimo delle minoranze di progresso. Ho premesso a questo tentativo una considerazione, naturalmente confutabile: la stance progressiva, il punto di vista riformatore-rivoluzionario – perdona l’ossimoro: prima del Novecento i due termini procedevano di pari passo: il protestantesimo fu una rivoluzione che si chiamò Riforma, e agì come riforma della Chiesa – ha un periodo di nascita, e un periodo di sviluppo. Ha, in altri termini, una storia.

Anche la conservazione ha una storia? Il conservatorismo porta una data di nascita? La mia risposta di storico non può che essere positiva. Tutti i fenomeni umani hanno una storia, la storia è la natura dell’uomo, per parafrasare Lévi-Strauss. La conservazione nasce quando nasce il progresso. In termini meno apparentemente ideologici: la ricerca di stabilizzazione nasce quando nasce la ricerca di mutamento, perché senza questa la prima, semplicemente, non si dà. È soltanto realtà, forza immanente, legittimazione, come nelle società arcaiche.

Se la nozione di mutamento nel qui e ora, cioè di mutamento politico e sociale, nasce con la modernità, ne consegue che anche la nozione di conservazione nasce con essa. Il concilio di Trento fu un sensazionale sfregio alla tradizione compiuto nel nome della tradizione stessa. Fu reazione, nel suo senso più autentico. Contro i protestanti fu inventata una tradizione, che era quella di una teologia in realtà abbastanza recente, la teologia degli ordini mendicanti del tardo medioevo. A nessun teologo del XIII e del XIV secolo sarebbe apparsa accettabile la teologia tridentina, con la sua insistenza sul libero arbitrio, sulla preminenza del papa sui vescovi, sulla relatività del peccato originale. Eppure il concilio di Trento si narrò, e fu narrato, come il risveglio della tradizione contro l’innovazione luterana.

Qualcosa di molto simile accadde nel contesto delle insorgenze controrivoluzionarie di fine Settecento. Fu esemplato un credo, il credo delle catene e dell’obbedienza («ci teniamo care le nostre catene», dicevano i predicatori antigiacobini della Napoli del 1799), e fu spacciato come tradizione. Operazione di erculea potenza: le plebi dell’Italia settecentesca, che tutto erano meno che frementi guardiane della feudalità e dei principati assoluti, si scoprirono le loro prime e più preziose alleate. Nulla di strano in questo: un’azione concepita con lucidità e consapevolezza dei propri mezzi dalle élite conservatrici che si erano formate in secoli di scuola di direzione delle coscienze. In questo senso, lo dico per inciso, la Controriforma maturò i suoi frutti “migliori”, ossia i più velenosi, negli anni a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo; in questo senso De Maistre è il figlio più diretto del cardinale Bellarmino, fatte salve le debite distinzioni.

Seguito fino a questo punto, il mio discorso presta il fianco a una critica. Se progresso e reazione sono figli paritetici della modernità, perché il primo, almeno in Italia, perde, mentre il secondo vince immancabilmente? Questa critica, in realtà, porta al cuore del nostro discorso sulle minoranze. Avanzo una risposta in termini sintetici: questa presunta parità è un’illusione. È un tema che probabilmente resta in secondo piano nella nostra analisi, e che per questo ora merita di essere esplicitato.
Il politico ha sempre un retrostante referente culturale, antropologico. Ce lo ha spiegato con mirabile raffinatezza argomentativa Pierre Clastres: se le società arcaiche sono prive di Stato questo è dovuto al fatto che esse sviluppano meccanismi di repressione e di neutralizzazione delle spore della statualità, altrimenti detto delle pulsioni verso l’accumulazione del potere e il consolidarsi di gerarchie.

Questo significa che l’egualitarismo non è naturale, ma artificiale: è proprio della natura – della natura umana – sviluppare la differenza, e quindi la subalternità; è proprio della cultura porvi un freno, fino a quando lo permettono le dinamiche sociali e politiche – demografiche, secondo Clastres – del gruppo. Superata questa soglia, che è quella che evidentemente segna l’ingresso nelle società complesse, nelle società agrarie-tributarie che vediamo all’opera dall’età del bronzo, la gerarchia (referente ultimo del pensiero conservatore) si fa cemento della coesione sociale. Si pensa definitivamente natura, quindi immutabilità – malgrado sia essa stessa cultura, poiché la differenza originaria perde il suo carattere naturale in seguito alla dialettica con l’egualitarismo tribale. Dal tempo senza storia delle società contro lo Stato occorre procedere fino al tempo senza tradizione della rivoluzione moderna: in mezzo, la lunga fase del predominio delle gerarchie.

Posta in questi termini la questione muta di segno. La lotta delle minoranze progressive della modernità non è lotta contro la storia, ma lotta contro la natura – la natura artificiale, ovviamente, della narrazione conservatrice –, o contro quelle sue incarnazioni che sono il diritto divino dei re, l’antichità immemorabile delle aristocrazie, la storia sacra e tutto quanto rinvia all’archetipo del vero in quanto esistente. La dialettica che portò alla nascita dei diritti dell’uomo fu una titanica battaglia contro l’idea della naturalità delle differenze. Perché mai un popolano avrebbe dovuto avere dalla nascita gli stessi diritti di un patrizio?

Questa dialettica non ha un vero termine, una vera sintesi. La tragedia delle minoranze progressive sta tutta qui: muovere guerra all’esistente corrisponde sempre a muovere guerra a una presunta natura. Se le circostanze storiche lo permettono, com’è stato per le democrazie europee del Novecento, questa guerra si risolve con la genesi di una seconda natura, la natura a tutti noi oggi nota, che è quella proclamata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e acquisita dal discorso pubblico dell’Occidente contemporaneo. Che dietro questo esito si celino altri conflitti, interessi vincenti e nuove differenze è verissimo, ma ora non fa parte del nostro discorso. Obama è certamente una maschera vincente di Wall Street, ma Obama non è Berlusconi, né Renzi né Grillo.

Ecco allora la specificità italiana. La lotta delle minoranze di progresso contro la presunta naturalità della tradizione, contro la inemendabilità dell’esistente, in Italia non è mai stata conclusa. Il che equivale a dire che la modernità italiana è una modernità inconclusa, una modernità ancora soggetta a un confronto che altrove è stato superato, e nel caso sostituito da altri conflitti. Gli elementi di questa dialettica peculiarmente italiana possono essere facilmente identificati. Lo si può fare, semplicemente, leggendo in negativo il lessico delle minoranze di progresso.

Riprendo i termini esposti poco sopra: rifiuto della ragione dogmatica, emancipazione, apertura. Li rovescio, e ne desumo le conseguenze: obbedienza al dogma, soggezione, chiusura. Ecco tre princìpi che, nello specifico quadro culturale italiano, rivendicano naturalità, quindi immutabilità. Resto ancorato allo specifico italiano perché ritengo sia un caso paradigmatico, un case study che avrebbe molto da dire su di un piano universale.

Dunque: obbedienza al dogma, in primo luogo. L’oligarchia italiana, l’oligarchia eterna che si riproduce in forme e sembianti diversi, non ha mai rinunciato a questo principio fondativo. Il dottrinarismo della Chiesa non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Ma che dire dei dogmatismi che prescindono, in parte o in tutto, dal momento religioso? Il fascismo fondò la propria identità sul dogma dell’indiscutibilità del capo, e forgiando questa categoria la mise a disposizione di tutti i movimenti reazionari europei, che a volte la tradussero in principio carismatico di organizzazione della macchina amministrativa – il Führerprinzip nazista, che peraltro ebbe nel cattolico Carl Schmitt uno dei “padri costituenti” –, altre volte in replica secolarizzata dell’infallibilismo papale – il caudillismo, che dall’edificio clerical-fascista del franchismo si moltiplicò nella genìa sanguinaria e turbolenta delle dittature sudamericane. 

L’ideologia provinciale e cattolica dell’Italia democristiana degli anni Cinquanta e Sessanta è un altro esempio di dottrinarismo applicato alle dinamiche politiche (il rifiuto puro e semplice della diversità nelle sue varianti culturali, sociali, sessuali), che del resto fa il paio con il dottrinarismo del Pci degli stessi decenni, in una riduzione in sedicesimo delle guerre di religione che visse di un’opposizione antropologica fra l’Italia contadina e l’Italia operaia. Da ultimo, il discorso neoliberista, dominante anche in Italia a partire dagli anni Ottanta, è puro dottrinarismo concettuale e lessicale, come ho sostenuto prima; e va notato che esso, malgrado la crisi indotta dal crack del sistema speculativo, non ha ancora rinunciato alla sua originaria vocazione di pensiero unico, di teologia secolare che liquida come utopiche, o distopiche, le voci contrarie.

In secondo luogo, il filo rosso del principio dell’assoggettamento. Come potremmo individuare nell’emancipazione del soggetto generale, cioè del soggetto che non è ascritto all’élite, un dato costitutivo di fondo dell’azione delle minoranze di progresso, così la cristallizzazione dei rapporti di subalternità è un articolo di fede del credo delle oligarchie conservatrici.
Come ho detto poco sopra, l’egualitarismo è un costrutto culturale proprio di determinate società, essenzialmente le società arcaiche dei cacciatori-raccoglitori – contemplino o meno forme di agricoltura di sussistenza – e le società storiche di tipo nomade-pastorale. L’uccisione del capo ne è una costante archetipica. In entrambi i casi si tratta di società che non toccano la soglia di produzione di beni oltre la quale si verifica l’accumulazione di ricchezza, e dunque la nascita delle gerarchie sociali, oppure, se vi si avvicinano, esercitano meccanismi di dépense atti a neutralizzarla. Si tratta, ripeto, di meccanismi culturali, e in quanto tali soggetti alla fragilità propria delle culture, sottoposte a perenni processi di ridiscussione. Le civiltà complesse, per come le intendono la storia e l’antropologia, ossia di fatto le società urbane, sono di per sé società gerarchiche perché fondate sulla divisione delle funzioni, che non è semplice divisione del lavoro ma segmentazione di ruoli che dà vita a una stratificazione funzionale arricchita di simboli e identità: la funzione amministrativa, quella militare e quella religiosa ne costituiscono gli archetipi più primitivi e universali.

Entrate in questo paradigma, le società fanno il loro ingresso nella storia, a partire dal fatto che producono scrittura, che è di per sé funzione elitaria di cui è incaricata una corporazione di addetti alla produzione, alla riproduzione e all’interpretazione di documenti. Abbiamo esempi di società storiche immuni dal fato della gerarchia? Non mi risulta. Per fermarsi al mondo antico, fra l’altro, le società europee non sono le più rappresentative al riguardo: le evenienze più coerenti con questo modello provengono dall’Asia – la società castale indiana, le dinastie confuciane cinesi –, dall’Africa – i regni del Sudan fondati sul commercio degli schiavi – e dall’America – gli imperi militari-sacerdotali del Meso- e Sudamerica. L’Europa, l’Europa moderna, ha semmai sperimentato in una scala inedita di espressioni il raffinamento delle strutture di differenziazione gerarchica, inventando quei dispositivi di disciplinamento e di marginalizzazione dei quali Foucault ha così ampiamente ricostruito la genesi ideologica.

L’Europa dell’età delle crociate era indubbiamente meno gerarchica dell’Europa dell’Illuminismo: non perché non conoscesse le diseguaglianze, ma perché era estranea a quella “microfisica” della gerarchia che fu il prodotto della specializzazione dei saperi e delle funzioni che si innescò essenzialmente con lo sviluppo del capitalismo agrario e commerciale, con l’introiezione delle istanze del disciplinamento religioso e con l’espansione degli apparati amministrativi e militari dello Stato moderno. È esattamente in questa fase, che decolla dallo scorcio del XVI secolo (i decenni della grande inculturazione religiosa praticata da tutte le confessioni, come hanno certificato le ricerche che fanno capo a Heinz Schilling e Wolfgang Reinhard, che sono anche i decenni del germogliare delle società per azioni e delle compagnie commerciali, nonché della guerra continentale generalizzata, fino alle paci di Westfalia del 1648), che élite di progresso ed élite di conservazione si fanno soggetti attivi di una dialettica che ruota tutta attorno agli obiettivi opposti dell’abbattimento e del consolidamento delle barriere gerarchiche. La posta in gioco, è chiaro, non è sempre e soltanto sociale: può essere religiosa, culturale, epistemica (come nel caso dei galileisti del Seicento); ma resta il fatto che l’emancipazione del soggetto resta il fulcro del conflitto.

Di quale soggetto stiamo parlando? Il soggetto del mondo del commercio e delle professioni – il soggetto borghese, in altre parole – che è il protagonista delle rivoluzioni atlantiche della fine del XVIII secolo non è il soggetto contadino e operaio delle rivoluzioni del secondo e del terzo decennio del XX. Come il soggetto lavoratore della fabbrica novecentesca non è l’«occupato» dell’età neoliberista, che subisce la disarticolazione delle tutele contrattuali e la dissoluzione delle istanze sindacali. Ecco che interviene la dinamica della stabilizzazione del potere: le oligarchie conservatrici interpretano, di volta in volta, secondo le relative condizioni storiche, i programmi dei blocchi sociali di potere, a volte denotati da contrapposizioni ideologiche ma cementati dal comune interesse verso la tutela di posizioni di privilegio, che in crudi termini sociologici si declina in pratiche di esclusione dei gruppi che ne restano estranei. Lette sotto questa luce, le élite politiche e sindacali appartenenti all’alveo della sinistra storica italiana del secondo Novecento non sfuggono alla regola: se i loro referenti sono segmenti privilegiati della società, e i loro avversari sono tutti quei soggetti che, a partire dall’ultimo decennio del XX secolo, sono rimasti esclusi dalla cittadinanza piena – che è quella che nella società capitalista vive entro il flusso delle regole che garantiscono la giusta rispondenza fra lavoro e retribuzione –, allora vediamo che l’oligarchia conservatrice si allarga, si fa poliedrica e ideologicamente contraddittoria, perde colore politico e guadagna sostanza di materialismo storico. Questo discorso è rimasto in secondo piano nel libro; credo che vada posto nella giusta evidenza, poiché l’ultima cosa che vorrei è di essere tacciato di manicheismo.

Infine, il terzo rovesciamento di principio: chiusura contro apertura. L’oligarchia conservatrice disconosce i nuovi soggetti. Assume come irrinunciabile l’imperativo tassonomico. La conservazione ha bisogno dell’ordine come dell’aria che respira; nell’ordine trova la giustificazione ultima della propria rivendicazione di naturalità. Mi riferisco, ovviamente, alla sfera culturale: sul piano del puro gioco politico e militare tanto l’ordine quanto il disordine sono funzionali alle strategie oligarchiche, come ci indica la politica estera degli Stati Uniti di questi ultimi tre lustri.

L’ordine di cui parlo è prima di tutto lessicale: ‘noi’ contro ‘loro’, con il relativo ventaglio semantico che rinvia al motivo dell’appartenenza contro l’alterità. Coppie lessicali analoghe si moltiplicano secondo le infinite declinazioni del principio di chiusura, secondo logiche transeunti di cui resta a volte soltanto lo scheletro fossile della dicotomia: l’opposizione ortodosso/eretico dominò per almeno un secolo e mezzo il discorso pubblico europeo, fino alla fine del Seicento; quella bianco/nero è ancora oggi possente alle periferie dell’Europa e degli Stati Uniti, mentre ha perduto valore nei centri della produzione di ricchezza, e lo stesso si potrebbe dire della coppia eterosessuale/omosessuale; quella anglosassone/latino, o nordico/mediterraneo, pare conoscere attualmente rinnovata fortuna europea e americana. Questo vocabolario duale genera una grammatica, e quindi un discorso della chiusura, il quale a sua volta dispone una serie di pratiche che rinviano al disconoscimento, alla negazione dell’universalità del soggetto.


La pratica che da questo punto di vista connota più fortemente le oligarchie conservatrici italiane, e che più di tante altre ha determinato il profilo sociale e culturale della penisola, resta a mio parere il rifiuto sistematico delle regole. Occorre chiarire: non sto contraddicendo l’idea di poco fa circa il bisogno classificatorio, e dunque normativo, dei gruppi di conservazione. Le norme proprie delle oligarchie italiane sono le norme non scritte, consuetudinarie e comunitarie che scandiscono la vita delle famiglie e dei gruppi, e che in quanto tali rispondono al dualismo originario appartenenza/non appartenenza, successivamente declinato secondo i casi. Le regole di cui parlo, invece, sono quelle positive, scritte e universali che sono un portato dello Stato moderno: la produzione legislativa, in altri termini, e i testi subordinati. Queste regole della comunità organizzata in Stato hanno un’originaria radice emancipatoria in quanto universalista; il loro referente è il cittadino senza specificazioni, e per questo esse sono costitutivamente proiettate sull’orizzonte dell’apertura, cioè dell’inclusione. È per questo che i meccanismi di cittadinanza dovrebbero essere uno fra i poli d’interesse delle élite progressiste, soprattutto oggi che le barriere delle identità etniche e religiose stanno acquistando, purtroppo, nuova solidità. Al contrario, il rifiuto della regola, l’evasione e lo sprezzo della regola, che sono pratica e bandiera comune della destra italiana della seconda metà del Novecento e che sappiamo tutti essere diventati programma politico con la galassia berlusconiana, sono meccanismi di riproduzione del privilegio, poiché è noto che dove non esiste il diritto garantito dalla legge vige, indisturbato, il privilegio, e con esso la chiusura oligarchica. Spero di essere stato sufficientemente chiaro, pur in questo tentativo di sintesi.
( segue )


Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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Elogio delle minoranze

Le occasioni mancate dell'Italia 

Elogio delle minoranze
Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.

mercoledì 24 giugno 2015

INTERVISTA A FRANCO MOTTA SU «ELOGIO DELLE MINORANZE»: Parte VII :: Sulla strategia come via del paradosso - (tratto da Archeologia delle minoranze: Intervista con Franco Motta - uscita prevista Settembre 2015)

Sulla strategia come via del paradosso



Obsolete Capitalism :: Cerchiamo di approfondire la ‘ratio’ di élite e minoranza. Come vi ponete, dal punto di vista storiografico e politico, rispetto alla scuola della ’teoria delle élite di Pareto e Mosca? Se, come afferma Sun Tzu, «la strategia è la via del paradosso», perché non inserire nel vostro libro la scuola dell’élitismo italiana nel novero delle minoranze intellettuali, per poi confutarne i contro e sottolinearne i pro all’interno di un capitolo a loro dedicato?


Franco Motta :: Questa vostra domanda riporta al centro del discorso la nostra scelta lessicale. Non potevamo non confrontarci, infatti, con la semantica dominante del termine ‘élite’: sarebbe stato, francamente, suicida, a meno di non impegnarsi in una ridiscussione complessiva dell’accezione corrente dell’elitismo, che era al di là delle nostre intenzioni. Curiosamente, il discorso inaugurato da Mosca e Michels è rimasto aperto, inconcluso: la teoria delle élite si è ossificata in puro e semplice realismo politico, che è la matrice di ogni discorso reazionario; come notavo prima, la possibilità di pensare una modernità giusta, progressiva, in termini di azione rivoluzionaria – o anche soltanto riformatrice – condotta da gruppi morali e consapevoli è rimasta priva di voce.

La svolta si è giocata probabilmente fra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. Con la sua celebre Managerial Revolution, del 1941, James Burnham ha tacitato una tale eventualità dipingendo un futuro di élite tecnocratiche sorde alle sollecitazioni esterne e dedite alla cooptazione, dunque all’esclusione e alla pura e semplice gestione e riproduzione del privilegio. Alla luce dell’analisi sociologica americana le élite sono mutate in casta, e questa svolta semantica ha continuato a essere dominante nei decenni successivi. George Orwell ne ha fatto il filo conduttore della sua distopia totalitaria. Nulla di nuovo sotto il sole, in un certo senso: di Machiavelli fu passata sotto silenzio la vocazione civica ed egualitaria, antimagnatizia, e il Principe restò l’archetipo di ogni programma di cruda conquista e preservazione del potere. 

Un’élite conservatrice di raffinata capacità egemonica, quella delle teste pensanti della Controriforma, fu all’origine di questa operazione selettiva, che resta una tra le più efficaci imprese di contrabbando culturale della storia della politica moderna: la madre del primato della ragion di Stato – questo sì un feticcio dell’elitismo conservatore –, che dalle paci di Westfalia agli accordi di Yalta (ma potrei fare un esempio più recente di cinquant’anni, gli accordi di Dayton) è stata il basso continuo delle politiche spartitorie delle potenze fondate sul controllo e lo “riempimento statuale” dello spazio, quello che Carl Schmitt definì lo Ius publicum Europaeum.

L’imperio della ragion di Stato del pieno Novecento, ulteriormente avvelenato dalle risorse dell’ideologia, ha fatto il resto. L’essenza mostruosa e schizofrenica del dispositivo di potere nazista, dipinta già nel 1942 (un anno dopo Burnham) dal Behemoth di Franz Neumann – socialdemocratico di Weimar esule negli Stati Uniti ed esperto di problemi tedeschi per l’Oss –, rivelò come il connubio fra élite politiche e monopolistiche potesse dare vita a esperimenti di repentino successo e di energia devastante come il regime della Nsdap. Questa lettura lucida e circostanziata si applicò facilmente, e con fondate ragioni, non soltanto al totalitarismo sovietico, che nel suo zenit staliniano si era nutrito di élite cannibali che divoravano loro stesse, ma allo stesso modello della democrazia vincitrice per eccellenza: a Neumann si ispirò esplicitamente Charles Wright Mills per il suo celebre The Power Elite del 1956, che smascherò il sistema castale imperniato sulle corporations, l’esercito e le università delle Ivy League che governava gli Stati Uniti e che a sua volta dettò a Eisenhower la sua denuncia della forza sotterranea dell’apparato militare-industriale americano. 

L’irruzione del neoliberismo fu, politicamente e ideologicamente, l’effetto della mutazione di questa analisi critica in apologia, e più ancora, in virtù della veemenza ipnotica dell’immaginario reaganiano, in mitopoiesi: è memoria appena dell’altro ieri il tripudio tecnocratico degli anni Ottanta, l’esaltazione di nuovi teologumeni come il primato dogmatico della finanza, la pretesa legittimazione scientifica delle discipline economiche, la canonizzazione del ceto manageriale e quant’altro. Nella remota provincia italiana l’idea craxiana e dalemiana del «partito del presidente» non è stata che un simulacro artigianale e truffaldino di questa narrazione che soltanto adesso comincia a rivelare la sua natura dottrinaria.


Quello che resta, allora, è un lampante strabismo interpretativo: la nozione stessa di élite schiacciata sulla sua accezione negativa, la perdita della consapevolezza della natura di imperativo morale che il progresso ha avuto nella piena modernità novecentesca, la scarnificazione di ogni progetto egemonico – progressista o conservatore che sia – alla pura avidità predatoria, secondo modelli che comprendono la Russia eltsiniana, l’Italia berlusconiana (attualmente nella fase epigonica del renzismo), gli Usa dell’età di Bush e tanto altro. È ovvio che dietro questo gap analitico si colloca la precisa volontà di falsificare la realtà negando la pensabilità del progresso, ma questo esula dalla domanda. Mi sembra però evidente, di fronte a questo, che la scuola elitista italiana sia rimasta tutto sommato sterile, e quindi difficilmente valutabile come minoranza intellettuale con potenzialità egemoniche. ( segue )



Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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Elogio delle minoranze

Le occasioni mancate dell'Italia 

Elogio delle minoranze
Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.

martedì 23 giugno 2015

INTERVISTA A FRANCO MOTTA SU «ELOGIO DELLE MINORANZE»: Parte VI :: Sulla grammatica della minoranza politica - (tratto da Archeologia delle minoranze: Intervista con Franco Motta - uscita prevista Settembre 2015)

Sulla grammatica della minoranza politica 


Obsolete Capitalism :: Nell'introduzione della Vostra opera scrivete di "minoranza come elitismo" con segno "positivo". E' dunque possibile stabilire, attraverso la vostra ricerca, una grammatica (dove per grammatica s'intende quell'insieme di parole e prassi quotidiane che auto-enunciano le loro proprietà) della minoranza politica, culturale e sociale, seppur declinata all'interno del contesto italiano?


Franco Motta :: La possibilità di una grammatica minima del pensiero e della prassi delle minoranze progressive è in effetti un corollario dei presupposti teorici del nostro lavoro, visto che individuiamo quelle minoranze proprio sulla base della loro antiteticità sia rispetto al pensiero e alla prassi delle minoranze conservatrici, sia in rapporto alla cultura consolidata dell’Italia contemporanea. Ma una premessa è indispensabile.

Se parliamo di minoranze progressive e minoranze conservatrici è perché riteniamo che il progresso e la conservazione siano due forze effettive, aggregatrici di idee e di energie, rilevabili nella dinamica storica mondiale. In nessun modo, però, le crediamo entità metafisiche atemporali e universali (naturalmente mi sto riferendo al progresso civile e sociale e non al progresso tecnologico, che data dalla comparsa del genere homo e si avvicina di più a essere un universale).

L’idea di progresso si sviluppa in determinate circostanze storiche, le circostanze in cui è germogliata e fiorita la cosiddetta modernità nell’Europa del XV-XVI secolo; l’idea di conservazione, nell’accezione politica che assumiamo, prende forma di conseguenza. Dunque una tale grammatica non può che essere esemplata su “regole” che acquisiscono senso e uso nella modernità, e che a noi restano a tutt’oggi riconoscibili.

Temporalità e consonanza lessicale, dunque. Con questo non nego che alcune istanze sociali, culturali o politiche possano assumere rilievo anche in altre epoche e in altre realtà geografiche, ad esempio rivendicazioni di giustizia sociale, di affrancamento da condizioni di soggezione e servitù, e senza dubbio parecchio altro. Il punto, a mio parere, è che solo nelle condizioni della modernità quelle rivendicazioni si aggregano su un piano ermeneutico del tutto peculiare, che è quello della lettura del reale come entità passibile di mutamento e dunque di miglioramento. Reinhart Koselleck ha scritto pagine giustamente note su questo tema quando ha svelato la mutazione semantica in cui era incorso il termine ‘rivoluzione’ tra il XVI e il XVIII secolo.

Comprendo bene che queste mie considerazioni possano sollevare sospetti di etnocentrismo e di un privilegio del momento della modernità che può suonare teleologico. Provo allora ad aprire un inciso di chiarimento.

Il tornante fondamentale nell’evoluzione dell’intelletto progressista risiede nella nascita dell’idea dei diritti dell’uomo. Non c’è dubbio che i diritti dell’uomo siano stati concepiti e impiegati come una leva atta a scalzare precedenti gerarchie di potere e a sostituirle con il potere del soggetto borghese produttivo, con la ragione produttiva che, alla fine del Settecento, era opposta alla ragione delle élite cetuali e feudali. Il fatto stesso che tra questi diritti sia stato incluso, prima con le carte della Rivoluzione americana e poi con le Costituzioni francesi del 1791 e del 1795, il diritto intangibile di proprietà, con le conseguenze che questo ha avuto nell’edificazione dei regimi liberali del XIX secolo, è un’evidente prova in favore della natura egemonica del discorso dei diritti umani. L’uso spregiudicato che ne hanno fatto gli Stati Uniti durante la Guerra fredda come strumento di lotta ideologica è un’ulteriore prosecuzione di questa originaria vocazione polemica.

Il fatto è che il dispositivo concettuale dei diritti dell’uomo è un dispositivo aperto, un dispositivo che contiene in sé la negazione dei propri limiti in direzione di un’apertura universale del proprio significato ultimo: se i diritti fondamentali pertengono all’uomo in quanto tale, allora le diverse condizioni in cui vive l’uomo producono costantemente nuovi diritti che mettono in discussione i confini sanciti dai diritti precedenti. In quanto tale, esso è un dispositivo duale, perché è al tempo stesso a disposizione del potere e delle forze antagoniste che si muovono contro il potere. Il discorso dei diritti ha svolto un ruolo irrinunciabile nella lotta per l’emancipazione delle classi lavoratrici – benché celato dalla filosofia del materialismo storico –, o nel processo di decolonizzazione, o ancora nel movimento per i diritti civili in America, per fare tre esempi di dialettica storica rivolta contro il predominio di modelli di sfruttamento costruiti sul primato della ragione produttiva e proprietaria. 

Il tema su cui vorrei richiamare l’attenzione è però che i diritti dell’uomo sono incontestabilmente un prodotto della cultura europea del XVIII secolo. Non perché essi, in astratto, non avrebbero potuto essere pensati altrove, ad esempio nel mondo indiano: la connected history di Sanjay Subrahmanyam ci ha mostrato come la cultura indiana del ‘4-‘500 abbia prodotto fenomeni culturali paralleli e paragonabili a quelli che si ritenevano esclusivi del contesto europeo, come la capacità di produrre storiografia, fatte salve le differenze nei referenti discorsivi. Semplicemente, l’Europa moderna ha esperito le condizioni storiche perché il concetto di diritti naturali acquisisse uno specifico spessore politico, e prima ancora culturale.

L’Illuminismo è stato il fattore fondamentale, certo, ma Rousseau e Condorcet non hanno pensato i diritti dal nulla: la loro esperienza intellettuale è stata il delta in cui sono confluite esperienze precedenti, in larga parte extrasoggettive, cioè indipendenti dalla riflessione filosofica e dall’azione pubblicistica dei singoli. Tre esempi, i più macroscopici.

Il primo: il diritto alla libertà di coscienza, la cui esplicitazione non avrebbe potuto concretizzarsi se non a valle della frattura religiosa data dalla Riforma e dal problema dello Stato a confessione mista, che è il problema che sottende la pratica politica del Cinque-Seicento. 

Il secondo: la rivoluzione scientifica, che fu certo affermazione della ragione matematica e quindi dell’egemonia della razionalità cartesiana, ma anche, e prima di tutto, potente generatrice di pensiero dialettico, di confronto fra teorie sottoposte all’onere della prova, e dunque di rottura del tabù della tradizione come fonte suprema di legittimità (questo sì, peraltro, un universale antropologico). 

Il terzo: la scoperta del Nuovo Mondo, il contatto con l’alterità dei «selvaggi», dei popoli allo «stato di natura», com’era d’uso dire all’epoca; un contatto che nella cultura dell’epoca determinò la pensabilità dell’evoluzione delle civiltà umane, e quindi proiettò la visione dell’uomo e delle sue istituzioni su un’orizzonte di temporalità, ergo di relatività. Non a caso Étienne de la Boétie compone il suo straordinario Discorso sulla servitù volontaria, la prima vera denuncia della natura mistificatoria e artificiale del potere, nel clima di eccitato interesse che la Francia di metà Cinquecento riservava alle relazioni di viaggio dal Brasile.

Né il protestantesimo, né la scienza moderna né le esplorazioni oceaniche hanno direttamente nulla a che fare con la nozione di diritti umani. Eppure questi tre fenomeni storici, come certamente altri, hanno svolto la funzione di lievito di quel pensiero che solo con la seconda metà del Settecento ha esplicitato e rivendicato quei diritti. E non c’è dubbio che questi stessi fenomeni, per le cause storiche più diverse, abbiano trovato nell’Europa moderna il proprio luogo di nascita. Lo stesso si potrebbe dire se volgiamo queste considerazioni sul piano temporale. Erano realizzabili le fondamenta del pensiero di progresso prima della cesura della  modernità? A mio parere no, non nella stessa accezione.

La democrazia delle póleis greche precede la democrazia contemporanea, ne costituisce il mito fondativo e ne detta alcune regole di base, a partire dalla regola della maggioranza. Ma la distanza fra le due resta tale da presentarsi come una distanza qualitativa invalicabile. La democrazia greca, e questo lo spiega bene Hannah Arendt in Vita activa, è una democrazia delle élite eretta sull’esclusione – delle donne, degli schiavi, dei meteci – anziché sull’inclusione; un’esclusione di natura, non di cultura, e in quanto tale pretesamente immutabile, laddove il pensiero progressivo per sua definizione (progredior, ‘avanzare’) non può che muoversi entro l’orizzonte del superamento della preteso carattere naturale delle differenze sociali e giuridiche.

Un secondo esempio, altrettanto paradigmatico: le comunità dei primi cristiani, la cui memoria, trasfigurata in mito, è stata un filo rosso che ha percorso il pensiero eterodosso – non soltanto cristiano: il Gesù rivoluzionario fu una potente figura di propaganda dell’immaginario socialista ottocentesco – lungo tutta la storia dell’Occidente. In effetti l’archetipo protocristiano della povertà, dell’eguaglianza e della condivisione dei beni è stato un regolare controcanto agli assetti consolidati del potere politico e religioso: da quell’archetipo presero respiro le esperienze del monachesimo altomedioevale, del catarismo, del francescanesimo radicale, della devotio moderna del XV secolo e ancora oltre.

Possiamo considerarlo allora un modello di critica progressista ai diversi avatar storici dell’ingiustizia sociale, della diseguaglianza? Senza dubbio no, se non altro per la sua sostanziale identità escatologica. L’escatologia è un potentissimo dispositivo culturale di sovversione del potere, ma non è in alcun modo un discorso di progresso, poiché proietta in un mondo altro, non in questo, il desiderio di emancipazione del soggetto. Il profilo carismatico di Paolo è eloquente: il suo radicale superamento delle differenze di status, di genere e di etnia proclamato nel celebre passo della Lettera ai Galati (3,28) deve essere letto sull’orizzonte del Regno, che è realtà escatologica e non entità storica, e per questo si accompagna all’altrettanto celebre apologia dei poteri costituiti dell’assioma nulla potestas nisi a Deo di Romani 13,1. Sospendo il giudizio in proposito soltanto in riferimento a due casi tra loro coevi, quello degli anabattisti della precoce traiettoria espansiva della repubblica comunista di Münster e quello del Bauernkrieg, la rivolta contadina evangelica che infiammò la Germania meridionale nel 1524-25. Ma come si vede siamo già nel cuore della modernità religiosa, allorché il politico, in senso ampio, è piena parte in causa.

Questa lunga premessa mi è servita per tracciare un terminus a quo della genesi del  discorso progressista, che è appunto discorso pienamente discendente dalla cesura della modernità. Per riprendere il filo della tua domanda provo allora a isolare alcune regole minime della grammatica delle minoranze di progresso. Cerco di sintetizzare.

La prima regola che mi viene in mente è il rifiuto della ragione dogmatica. Il dogma, ‘ciò che è decretato’, è il corrispettivo della tradizione nel campo intellettivo, ovvero l’esercizio dell’obbedienza applicato all’acquisizione di conoscenze e convinzioni. Su questo ci sarebbe molto da dire: la dogmatica cattolica della modernità, ad esempio, ha un suo punto iniziale, il concilio di Trento, che sancì l’intangibilità della tradizione come fonte della fede accanto alla Scrittura, e un suo punto finale, il Sillabo di Pio IX del 1864, che legò i credenti al rifiuto sic et simpliciter dei cosiddetti errori del mondo moderno, dalla democrazia al libero pensiero. Ma sarebbe sbagliato circoscrivere la ragione dogmatica alla cultura della Controriforma o della Restaurazione: l’attuale primato incontestabile della ragione, o meglio della narrazione economico-finanziaria è un caso esemplare di dogmatismo applicato all’analisi delle dinamiche sociali. In questo senso l’apparato tecnocratico che governa la cosiddetta eurozona è un caso lampante di élite conservatrice, laddove fa uso di un lessico apodittico –  rigore, crescita, pareggio di bilancio, Pil etc. – che non è giustificato da evidenze statistiche, ma si autoalimenta nel contesto di una potente mistificazione concettuale pseudoscientifica che rigetta le prove e contrario.

Una seconda regola individuabile è collegata all’esercizio di idee e pratiche emancipatorie. Se lo statuto del programma progressista è radicato nella genesi della modernità, allora il suo obiettivo non può che essere il superamento degli obblighi e delle appartenenze che caratterizzano il mondo premoderno: gli obblighi e le appartenenze di comunità, di ceto, di credo, di genere, di condizione giuridica e quant’altro. Il quadro naturalmente non si esaurisce qui: la modernità, a sua volta, forgia costantemente obblighi e appartenenze; la modernità produttiva, in particolare, nella forma di bisogni: il bisogno di consumi, in primo luogo, che nel paradigma del tardo capitalismo si tramuta in bisogno di identità plasmato dal mercato (nell’ultimo trentennio, in particolare, dal mercato dell’immateriale).

Le minoranze progressive si sono storicamente assunte il compito di abbattere le appartenenze, cioè di creare emancipazione. L’igienismo, ad esempio, aveva l’obiettivo di tutelare l’uomo nella sua integrità fisiologica universale, svincolandolo dalle fisiologie differenziali, di classe, che legittimavano la realtà della condizione patologica dei ceti subalterni. Gli eretici del Cinquecento contestavano in primo luogo lo statuto del laico come soggetto dipendente dall’intermediazione del divino attribuita in via esclusiva al clero. Il movimento femminista, nelle sue varie traduzioni storiche, è forse il caso più evidente di tutti, al pari del movimento antischiavista (e non a caso la prima metà del XIX secolo ha assistito a un’interazione ripetuta fra i due). A tutt’oggi il caso del movimento altermondialista, o no global, è un esempio tra i più recenti di minoranza progressista orientata verso l’emancipazione dal discorso e dalla pratica egemonica delle corporations. Il fatto che sia stato liquidato con la violenza a Genova rinvia, ancora una volta, alla natura paradigmatica della traiettoria storica italiana.


Una terza regola della grammatica delle minoranze di progresso rinvia a un’idea più generica di apertura, cui ho fatto cenno poco sopra in merito al discorso dei diritti umani. Apertura significa universalizzazione, non di identità, ma di possibilità: in altri termini, estensione indefinita dei soggetti che si considerano interlocutori. La pratica progressista non fornisce modelli validi a priori, bensì strumenti che possono essere applicati alla varietà delle condizioni storiche di partenza. I giacobini, ad esempio, avevano nell’istruzione repubblicana dei ceti inferiori uno dei capisaldi della propria azione politica, e persino all’estremo più rigido e dottrinario dello spettro progressista, quello delle élite marxiste-leniniste, la formazione umanistica e artistica, e non soltanto quella politica, identitaria, era considerata indispensabile ai fini della creazione dell’«uomo nuovo». In questo senso credo che l’attitudine maieutica possa essere considerata un carattere originale delle minoranze di progresso, e anche forse un buon metro per distinguere, a tutt’oggi, progetti e pratiche di emancipazione da progetti e pratiche di asservimento, soprattutto nel labirinto delle applicazioni delle nuove tecnologie.  ( segue QUI )



Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.