mercoledì 29 maggio 2013

Hommage à Franca Rame: 1929 - 2013


Picblog: film and politics (Ultima foto:Franca Rame all'assemblea Fiat a Rivalta - Torino)

martedì 28 maggio 2013

Mario Tronti - Commemorazione di Antonio Maccanico @ Senato della Repubblica, 8 maggio 2013 - XVII Legislatura, 20^ seduta



MARIO TRONTI (PD). 
Signor Presidente, onorevoli colleghi, familiari, é per me un onore parlare della personalità di Antonio Maccanico, anche perché ho avuto il piacere di conoscerlo personalmente proprio qui, in quest’Aula, nella XI legislatura, e di averlo collega nei lavori, richiamati, della Commissione bicamerale De Mita-Iotti. Fu una legislatura breve, quindi l’incontro fu abbastanza fugace, però fu quanto mi bastò per cogliere ed apprezzare il garbo della persona e lo spessore della figura.
Maccanico aveva qui un ruolo molto particolare, e voglio riportarvi un ricordo preciso di quelle giornate passate con lui. In quella legislatura c’erano in quest’Aula due grandi personalità della cultura politica e giuridica, Norberto Bobbio, senatore a vita, e Gianfranco Miglio, personalità discussa, discutibile, intelligenza contraddittoria, ma grande intelligenza, e ricordo molto vivamente, avendo avuto la fortuna di essere presente, i dialoghi sui massimi sistemi che nelle pause dei lavori di Assemblea si svolgevano tra queste grandi personalità. Il ruolo di Maccanico era quello di mediatore quando si verificavano – e vi assicuro si verificavano spesso – questi «scontri di continenti» tra Bobbio e Miglio. Ed era un grande piacere politico e culturale assistere e partecipare a questi dialoghi.
Maccanico non era un totus politicus; come è stato qui ricordato, era un uomo delle istituzioni, prestato alla politica sempre in contingenze critiche e molto peculiari. Quando i problemi si fanno acuti e mancano le soluzioni si fa in genere ricorso a questi uomini, e Maccanico era una di queste riserve della politica e anche dell’intellettualità politica e giuridica italiana.
Il senatore Compagna ha ricordato come Maccanico non aveva grilli di democrazia diretta: amava il Parlamento ed era un uomo del Parlamento, che si è formato dentro il Parlamento e ha praticato questa sua presenza in modo costante.
Si è detto: grand commis. Non userei questa formula, anche perché qui da noi devo riconoscere l’impraticabilità di questo modello francese che vedo di nuovo comparire tra le tentazioni di riforma istituzionale. I nostri politici non hanno dietro una formazione di scuola come l’Ecole Nationale d’Administration (ENA) o come il Polytechnique parigini. Qui da noi carriera da tecnico e carriera da politico sono separate e le personalità che contano, per alternanza, giuocano l’uno e l’altro ruolo in mo- menti diversi.
Maccanico ha fatto questo in modo egregio. Ha lavorato da tecnico vicino alla Presidenza della Repubblica e alla Presidenza della Camera. E` stato ricordato come abbia lasciato la sua impronta sulla Nota aggiuntiva di La Malfa, fondamentale nella storia del nostro Paese. Vorrei altresì ricordare la riforma del 1971 dei Regolamenti parlamentari della Camera, di cui Maccanico è stato grande protagonista.
Maccanico sta poi da politico in Parlamento e sta da politico nel Governo, fino al ricordato tentativo fallito del 1996. Ed è simbolica la sua scomparsa proprio nel momento in cui questo tentativo, in forme tanto peculiari e diverse, in qualche misura si ripropone.
Abbiamo detto grand commis no, ma servitore dello Stato senza dubbio sì. Dovremmo rivalutare questa figura del servitore dello Stato: è una figura un po’ obsoleta, oggi dì sconosciuta, con una patina simpaticamente ottocentesca di impronta liberale e di formazione crociana, fatta di sobrietà, serietà, competenza, volutamente nascosta nelle pieghe delle istituzioni, che è e non appare mai. Una figura da rivalutare proprio oggi, quando siamo abituati ad avere tutto e sempre sulla scena e, poi, vediamo e constatiamo che dietro la scena di molti personaggi, come sotto il vestito, vi è niente.
Le istituzioni sono un corpo molto delicato; vanno maneggiate e accudite con molta cura, altrimenti rischiano di rovinarsi. In questi vent’anni, a furia di riforme istituzionali a pezzettini, a furia di interventi selvaggi sulle leggi elettorali, questo campo istituzionale si é devastato.
Vorrei ricordare uno scritto di Maccanico intitolato «Riforme istituzionali: problemi e prospettive»: è una lectio del 1989-1990 che egli fece ai seminari di studio per funzionari aspiranti al lavoro parlamentare, in cui tirò un po' le somme dell’esperienza del Governo De Mita, giudicandolo come il primo Governo di programma. Uno dei punti programmatici fondamentali erano proprio le riforme istituzionali e il rapporto Governo-Parlamento. E lì lui diceva che in Italia c’è stata una stabilità politica e una instabilità governativa. Quello che abbiamo visto dopo è, invece, una instabilità governativa che si accompagna ad una instabilità politica. E questa è la ragione profonda anche della crisi di oggi.
Maccanico raccomandava, in quella sua lectio, di impiantare il problema delle riforme istituzionali in senso gradualistico, a piccoli passi: questa è una lezione che dovremmo tenere oggi molto presente.
Dicevamo che le istituzioni vanno accuratamente seguite e curate. Maccanico era in fondo un manutentore della macchina statale, un grande manutentore, quelli che conoscono benissimo questa macchina, alla perfezione: sanno come funziona, sanno dove si può trovare un guasto e soprattutto sanno dove mettere le mani nel momento in cui questo guasto va riparato. Ecco, di queste figure oggi avremmo molto bisogno, proprio perché  questo Stato-macchina è qualcosa che va alleggerito nella sua costruzione e nella sua struttura e quindi riformato, come oggi abbiamo appunto intenzione di fare.
Le istituzioni sono questo tramite intermedio tra cittadini e Stato, tra popolo e Governo; indispensabili quindi, perché attraverso di loro passano e devono passare la decisione e la mediazione; sono come un filtro da tenere pulito. Ecco, Maccanico era quello che teneva sempre pulito questo filtro e quindi faceva passare, o almeno aveva l’intenzione di far passare lì dentro, decisione e mediazione. Ma lì dentro passa anche la politica. Quando le istituzioni perdono questa funzione, viene a mancare il loro prestigio e, quando viene a mancare il loro prestigio, si innesca quel distacco che sta all’origine di questa non più sopportabile – credetemi – crisi dell’idea stessa e della pratica stessa della politica. Non la dovremmo più sopportare! (Applausi).
Maccanico era certo un membro della élite. Ma, ecco, le élite sono necessarie, come sono necessarie le masse. E il rapporto tra élite e masse va ricostruito per i tempi nuovi, non va azzerato. Questo è il senso e, nello stesso tempo, il compito della riforma che bisogna attuare. Come si seleziona il ceto politico? Non la sua soppressione, ma la sua selezione è il problema. Come si formano i gruppi dirigenti, le classi dirigenti? C’è bisogno di direzione dei processi altrettanto di come c’è bisogno di partecipazione ai processi di decisione. L’alto e il basso devono ricongiungersi, non devono contrapporsi. C’è da praticare un percorso di ricostruzione difficile, faticoso, ma necessario, una trama mediatrice tra noi che siamo qui e tutto quanto confusamente preme e spinge fuori da qui.
Mi avvio a concludere. La critica sacrosanta di quanto accaduto in questi anni di corruzione, di separazione, di auto-referenzialità e anche di immeritati privilegi del ceto politico va accompagnata ad un riallaccio di continuità tra quanto c’é stato l’altro ieri e quanto può esserci domani. Ecco, questa è la cura, il ponte che dobbiamo approntare, perché dalla saldezza delle istituzioni, malgrado i guasti della politica (le istituzioni tengono oggi, per fortuna, più e meglio della politica), solo da questa saldezza può venire il vero cambiamento.
Bisogna dire che l’interruzione traumatica, la rottamazione del passato, è un fatto regressivo, un fatto conservativo: non cambia, ma conserva e ripete. Da lì, da questi strappi, nella trama della storia non sono mai venute nuove soluzioni: sono sempre venuti vecchi ritorni.
Mi scuso per questo appunto che può sembrare fastidiosamente paternalistico, ma non lo è e non vuole esserlo: approfitto però di questa occasione per farlo. Vorrei dunque dire alle nuove energie che sono entrate nelle istituzioni, anche in questo ramo del Parlamento: ecco, approfittate della permanenza qui, di questa esperienza, per scoprire e apprezzare figure come quella che stiamo commemorando, perché c’è tutto da imparare. Attrezzarsi di una cultura istituzionale è essenziale, è indispensabile per un buon agire pubblico, altrimenti – guardate – si gira come pale al vento, a seconda di come il vento gira: questo è quanto non possiamo permetterci in questo purgatorio antipolitico.
Un’ultima osservazione, signor Presidente: sono in preparazione, da quanto so, per la casa editrice «Il Mulino», due preziosi volumi di diari inediti di Antonio Maccanico riguardanti la sua collaborazione alla Presidenza Pertini. Quando appariranno pubblicamente facciamo in modo di presentarli qui, con gli ottimi funzionari della Biblioteca del Senato, approfittando di quell’evento per riprendere il discorso su Maccanico in modo meno celebrativo, ma entrando più nel merito e nei contenuti della sua persona, perché ne abbiamo bisogno tutti, ne ha bisogno il Paese, ne ha bisogno l’Italia. 
(Applausi. Molte congratulazioni). 


PRESIDENTE. Senatore Tronti, certamente auspichiamo di poter ospitare un evento legato alla pubblicazione dei volumi che ci ha preannunciato. 


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lunedì 27 maggio 2013

Roberto Esposito - Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero - Einaudi, It, Giugno 2013 + Ateologia Politica @ Repubblica, 27 maggio 2013. Intervista di Leopoldo Fabiani al filosofo Roberto Esposito che in un libro, "Due", affronta il rapporto tra religione e potere.


Alla fine di un dibattito che ha attraversato l'intero Novecento, il significato ultimo della nozione di "teologia politica" continua a sfuggirci. Nonostante i tentativi di venirne a capo, parliamo ancora il suo linguaggio, restiamo ancora nel suo orizzonte. Il motivo, per Roberto Esposito, sta nel fatto che la teologia politica non è né un concetto né un evento ma il perno intorno al quale ruota, da piú di duemila anni, la macchina della civiltà occidentale. Al suo centro vi è l'articolazione tra universalismo ed esclusione, unità e separazione.

La tendenza del Due a farsi Uno attraverso la subordinazione di una parte al dominio dell'altra. Tutte le categorie filosofiche e politiche che adoperiamo, a partire da quella, romana e cristiana, di persona, riproducono ancora questo dispositivo escludente. Perciò il congedo dalla teologia politica - in cui risiede il compito della filosofia contemporanea - passa per una radicale conversione del nostro lessico concettuale. Solo quando avremo restituito al pensiero il suo "posto" - relativo non al singolo individuo ma all'intera specie umana - potremo sfuggire alla macchina che da troppo tempo imprigiona le nostre vite.

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Ateologia Politica @ Repubblica, 27 maggio 2013.
Intervista di Leopoldo Fabiani al filosofo Roberto Esposito che in un libro, "Due", affronta il rapporto tra religione e potere.
«Tutti i concetti politici sono concetti teologici secolarizzati ». La celebre definizione di Carl Schmitt ha segnato per tutto il Novecento la riflessione filosofica sulla politica. “Teologia politica” è divenuto così un paradigma irrinunciabile per comprendere non solo i rapporti tra potere e religione, tra Stato e chiesa, ma tutta l’evoluzione della civiltà occidentale. Ma “teologia politica” è anche una “macchina” di pensiero dentro la quale siamo da sempre imprigionati. La “cattura” non riguarda solo le menti ma, nell’era della biopolitica, anche i corpi, per mezzo del debito, figura centrale della “teologia economica”. È arrivato il momento di liberarcene. 
Questo è il tema dell’ultimo libro di Roberto Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero  che esce in questi giorni. Un testo che mentre ricostruisce la genealogia di questa categoria concettuale, ne mina allo stesso tempo le fondamenta. E sostiene che se vogliamo uscirne non si tratta solo di abbandonare una millenaria tradizione di pensiero, ma anche di ritrovare le ragioni profonde del vivere insieme in una collettività.

Professor Esposito, l’idea della fede come “instrumentum regni” è solo funzionale a una ideologia conservatrice o nasconde qualcosa di più profondo?
«L’idea che senza valori religiosi dominanti non si tenga insieme una società non è solo degli “atei devoti” come Giuliano Ferrara. Anche pensatori raffinati come Massimo Cacciari o Mario Tronti credono che il riferimento alle radici teologiche sia decisivo. Ecco dimostrato, se ce ne fosse bisogno, quanto sia persistente e pervasivo questo modo di pensare».

Altri però ritengono che viviamo nell’era della secolarizzazione, del relativismo, della morale “fai da te”.
«Ma questo non significa affatto che ci siamo “liberati”. Categorie come “secolarizzazione”, “disincanto” “ateismo” sono concetti teologici negativi o rovesciati. Esistono solo all’interno di quell’orizzonte che si vorrebbe invece oltrepassare».

Possiamo fare un esempio di qualche concetto “teologico” operante nell’attualità politica di questi giorni?
«Se ne possono fare molti, pensiamo al dibattito recente sul presidenzialismo. Si è sostenuto che siamo una società che non può fare a meno della figura del padre. Ora, l’azione del presidente Napolitano è stata un bene per tutti, ha trovato soluzioni, ha sbloccato una situazione che era arrivata alla paralisi. Sul piano simbolico però c’è qualcosa che non va. Perché la democrazia non deve essere un regime di “figli”, bensì di “fratelli”. Non è vero che abbiamo bisogno di un riferimento superiore, trascendente».

Ma in cosa consiste il meccanismo oppressivo che lei attribuisce alla teologia politica?
«È una tradizione di pensiero che taglia in due le nostre vite. Che tende a realizzare l’unità attraverso l’emarginazione di una delle parti. Che esclude mentre pretende di includere. L’uguaglianza, storicamente, è stata sempre “tagliata”: tra bianchi e neri, uomini e donne. Ecco, l’Occidente che sottomette il resto del mondo, la globalizzazione che impoverisce tante parti di umanità».

Secondo lei è giunto il momento di uscire da questo “dispositivo” che ci ha catturati e impedisce un’autentica libertà di pensiero. Ma come è possibile riuscirci?
«Non è certo un compito facile, al contrario, è difficilissimo. Io credo che la cappa che ci tiene prigionieri e che dobbiamo provare a rompere, sia fondata sul concetto di persona. Più precisamente, sull’idea che il pensiero appartenga al singolo, all’individuo. Dopo Cartesio, ci pare ovvio. Invece occorre tornare a una tradizione che da Aristotele arriva a Bergson e Deleuze, passando per Averroè, Dante e Spinoza. È una catena che risale all’antichità dove il pensiero è visto come un luogo che tutti possiamo attraversare, un patrimonio cui tutti possiamo attingere. Il primo e più importante, si potrebbe dire, dei beni comuni».

Arriviamo alla “teologia economica” dove la parte centrale del suo ragionamento si svolge attorno all’idea di debito.

«Intanto pensiamo all’ironia di definire i debiti degli stati con l’espressione “debito sovrano” (concetto, quello di sovranità eminentemente teologico). Oggi, chiaramente, la sovranità non appartiene più ai singoli stati, ma alla finanza».

Cosa c’è di teologico nel concetto di debito?
«Walter Benjamin definiva il capitalismo “l’unico culto che non purifica ma colpevolizza”. L’origine teologica di questo concetto è chiarissima. Se pensiamo che nella lingua tedesca la stessa parola significa sia debito sia colpa, capiamo molte cose. Comprendiamo perché i tedeschi vivano se stessi come virtuosi e considerino ad esempio i greci non solo indebitati, ma anche colpevoli. Ma oggi, attraverso il debito pubblico, siamo tutti indebitati».

Siamo tutti “prigionieri” del debito?
«Nietzsche diceva che il debito ci ha reso tutti schiavi gli uni degli altri. E non solo in senso simbolico. Il cerchio biopolitico che lega il corpo del debitore al creditore ha origini lontane. L’istituzione romana del “nexum” consegnava il destino della persona indebitata al suo creditore, che ne poteva disporre liberamente, per la vita e per la morte. Il mercante di Venezia di Shakespeare pretende di essere ripagato con una libbra di carne da chi non può farlo col denaro. Ma anche oggi il debito si paga con la vita. Pensiamo agli immigrati che devono ripagare per sempre con il lavoro chi gli ha prestato i soldi per uscire dai loro paesi. Pensiamo ai suicidi per debiti».

Se siamo arrivati a questo punto non è solo frutto della “macchina” teologica, ci sono anche responsabilità più recenti.
«Senza dubbio tutto questo processo è stato agevolato dalla governance liberale, attuata a partire dagli anni di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, che non ci ha affatto liberato, anzi. Ha trasformato il welfare in un peso insostenibile, teorizzando il “Lightfare”, lo stato leggero. È l’ideologia dell’“ognuno per sé” che ha portato alla crisi e reso il 99% della popolazione più povera».

Per liberarci come individui, lei sostiene, bisogna agire collettivamente.
«Io credo di sì. Il meccanismo di sviluppo va cambiato, dobbiamo tornare a pensare agli investimenti socialmente utili, non al guadagno personale. In questo ci aiuta il concetto di “communitas”. Che significa avere in comune un “munus”, parola che originariamente significava al tempo stesso debito e dono. Nelle società arcaiche il debito era vissuto come un legame sociale. Essere comunità non significa cercare di sopraffarsi uno con l’altro, ma sentirsi vincolati da un dono di fratellanza ».""


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Susan George - Come vincere la guerra di classe - Feltrinelli, It, 2013


“C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo.” 
Warren Buffett, investitore finanziario, la terza persona più ricca al mondo.


In questo saggio, travestito da romanzo di fantapolitica, una decina di esperti, che non fanno mistero della loro capacità di determinare le sorti del mondo, si riuniscono in una lussuosa villa nei pressi del Lago di Lugano. Hanno come missione quella di redigere un rapporto che deve rimanere segreto. Sono gli stessi a cui, già una decina di anni prima, era stato chiesto di scrivere un'altra relazione sullo stato del mondo ai tempi della contestazione del cosiddetto movimento "no global": il Rapporto di Lugano. Questa volta la domanda a cui devono rispondere è forse ancora più brutale: "Siamo in presenza di una fase inevitabile della crisi, di declino e caduta del sistema occidentale finora conosciuto, oppure siamo di fronte alla gestazione di una 'rinascita' del sistema capitalista stesso, che quindi ne uscirà rafforzato? Cosa possiamo fare per incoraggiare questa rinascita?". Per questi esperti, infatti, bisognerebbe farla finita non solo con lo stato sociale ma addirittura con la democrazia. In ultima istanza, è questa la ricetta per assicurare il trionfo del capitalismo occidentale. In questo racconto Susan George presenta una grande mole di dati sulla crisi economica in atto che convergono tutti verso una soluzione decisamente inquietante. Ma purtroppo realistica...

Susan George, economista, è considerata a livello mondiale una delle studiose più importanti della questione della fame nel Terzo mondo. Presidente del Transnational Institute di Amsterdam, è anche presidente onorario di Attac France. I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue. Tra le sue opere pubblicate in Italia, ricordiamo: Fermare il Wto (Feltrinelli 2002); Come muore l’altra metà del mondo: le vere ragioni della fame mondiale (Feltrinelli 1978); Il boomerang del debito (Edizioni Lavoro 1992); Crediti senza frontiere(Abele 1994); Il rapporto Lugano (Asterios 2000), Un altro mondo è possibile se… (Feltrinelli 2004) e L’America in pugno (Feltrinelli 2008).

Maurice Godelier - La moneta di sale. Economia simbolica e del dono presso gli indigeni Baruya della Nuova Guinea @ PGreco, It, 2013



Questo libro è il frutto di quarant’anni di ricerca dell’antropologo francese più discusso all’estero dopo Claude Lévi-Strauss. Riprendendo i celebri studi di Mauss sul dono, Godelier arriva però a conclusioni diverse. Se Mauss ricorre alle rappresentazioni religiose della società per spiegarne il funzionamento, Godelier contesta questa interpretazione, ritenendo che sia più plausibile fare riferimento a due norme di diritto, alla proprietà inalienabile e all’uso inalienabile, stesso avviso degli indigeni delle isole Trobriand. Tuttavia, il diritto non spiega perché la norma si avvale sugli oggetti preziosi, usati come doni, e non su quelli sacri. Questo è dovuto al fatto che il sacro è inalienabile e inalienato. A fornire una chiave interpretativa, è stata la società dei Baruya della Nuova Guinea, che pratica regolarmente i doni. In essa coesistono tutti questi aspetti: la moneta di sale, con limitati valori sacri, ha valore di scambio presso le tribù limitrofe, come dono e non altrimenti fra gli stessi Baruya; mentre per oggetto sacro hanno il kwaimatnié, pietre pervase dagli Yimaka – gli spiriti della foresta – usate per l’iniziazione dei giovani. Gli oggetti si presentano secondo tre differenti modalità: le merci sono alienabili e alienate, cioè cedute; i doni, che sono effettivamente passati ad altri, sono inalienabili, ma non inalienati; infine, il sacro è inalienabile e inalienato. Questo perché il significato è più simbolico, è anche identitario, non può essere lo stesso se fosse diviso dalla persona – singolare o collettiva – che lo detiene. E i Baruya non ritengono spendibili i loro giovani e non vogliono separarsene.
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Intervista a Maurice Godelier @ Avvenire by Edoardo Castagna (2010)


(...) Ma in che senso dobbiamo intenderlo, questo “sacro”, professor Godelier?
«Certo non si riduce al religioso. In Europa dicendo “sacro” pensiamo immediatamente al Dio monoteista, alla trascendenza, ma non è solo questo: il sacro fonda la società perché è il suo supporto profondo trasmesso di generazione in generazione, è quel che va al di là della vita degli individui, è ciò che consente agli individui di vivere insieme».
Concretamente?
«Nelle società occidentali di oggi oggetti sacri sono le Costituzioni. Non sono beni, non possono acquistare ma solo trasmettere. Il politico non può essere separato dal sacro, anzi ne fa parte; concetto difficile da comprendere per noi europei, che a partire dai Lumi e dalla Rivoluzione francese ci siamo abituati a vedere Stato e politica separati dalla religione. Questa spaccatura ci ha fatto dimenticare che in realtà il sacro non sta solo nella religione: anche la politica è un qualcosa di sacro, per gli individui e per i gruppi sociali. Quello che mi interessa, naturalmente, non è il legame sociale, ma la creazione concreta di una società».
Eppure i due filoni tradizionali delle scienze sociali mettono il sacro tra parentesi, e cercano altrove l’origine della società: Marx nei rapporti economici, Lévi-Strauss in quelli di parentela…«Infatti sono critico contro questo doppio feticismo. Forse che i rapporti di produzione capitalisti descritti dal marxismo possono spiegare in qualche modo una religione come il cristianesimo? Certo che no. L’economia è importante, va capita, ma non spiega. Allo stesso modo, la famiglia è importante per l’individuo, che si costituisce attraverso di essa, ma questo non basta a farne la base della società».
Dov’è l’errore, quindi?
«Il punto strategico dei rapporti sociali sta nel concetto di sovranità, un concetto più proficuo di quelli economici o strutturalisti. La questione è: perché e come i gruppi umani stabiliscono una sovranità su un territorio? Io rispondo: con il politico-religioso, cioè con il sacro. Politico, nel senso di sistemi istituzionali di governo; religioso, nel senso di rapporto con ciò che va al di là dell’umano».
Eppure in Europa è forte la tendenza a mettere Dio tra parentesi, e a insistere al contrario sulla laicità dello Stato…
«Un conto è la laicità dello Stato, cioè la separazione tra questo e la religione; un altro è il concetto di sacro. All’interno dell’Occidente, poi, è tangibile la differenza tra Europa e Stati Uniti: oltreoceano si giura sulla Bibbia, non sulla Costituzione… Anche là lo Stato non è religioso, nel senso che non c’è una Chiesa ufficiale, però la religione pervade l’intera società. La tradizione americana è impostata sul minor intervento statale possibile nella vita individuale, nell’economia, eccetera. Compassione per i poveri, sì; sistema sanitario per tutti, no – e si vede quanto fatichi Obama a introdurlo. In Europa al contrario lo Stato, a partire dal secondo dopoguerra, ha assunto un ruolo provvidenziale, facendosi carico della protezione sociale di tutti i cittadini. In America il rapporto tra lo Stato e la società sono diversi, così come quelli tra la società e la religione: ma ci sono casi ancora più divergenti, su come il sacro possa fondare una società: l’islam, per esempio».
La categoria di sacro come base del politico-religioso aiuta a capire l’ascesa del fondamentalismo?
«Nell’islam la sovranità non appartiene al popolo, ma a Dio; la legge civile posa sulla legge divina, la shari’a; la supremazia va al religioso, non al politico, e le persone non si riconoscono come cittadini, ma come credenti. In passato il problema del mondo islamico era un problema europeo, perché europei erano i Paesi colonizzatori dell’area musulmana. Oggi questo “domino” è passato agli Stati Uniti, mentre i Paesi islamici non hanno ancora elaborato il trauma della colonizzazione – trauma alla base, tra l’altro, anche della difficoltà di questi Paesi a liberarsi dai loro regimi dittatoriali. Tutto è pieno di paradossi: l’Iran degli ayatollah è una repubblica, con elezioni e opposizione, ma con un fondamento religioso; anche l’Arabia ha un fondamento religioso, ma è una monarchia assoluta, senza elezioni e senza opposizioni… Eppure repubblica, monarchia non sono categorie proprie della tradizione islamica, sono figlie anch’esse della colonizzazione occidentale. E il risentimento cova, ovunque. In Afghanistan, dove occorre assolutamente trovare una soluzione politica. In Iraq, dove il grave errore è stato distruggere interamente lo Stato di Saddam – neppure in Germania, dopo la Seconda guerra mondiale, lo Stato è stato distrutto – anziché modficarlo. E soprattutto in Palestina, vera ulcera aperta nel mondo islamico». 
Read more @ Sottoosservazione's blog

domenica 26 maggio 2013

Stefano Ricci and Ericailcane @ Squadro, Bologna, 2013 (Così su due piedi Sessions/Making of mp4)

ALEXANDER STILLE - THE CHAOS IN ITALY @ THE NEW YORKER, 7 MAY 2013



THE CHAOS IN ITALY

ALEXANDER STILLE 
THE CHAOS IN ITALY 
@ THE NEW YORKER, 7 MAY 2013

It would be a mistake to give too much weight to the desperate act of Luigi Preiti, the troubled, unemployed man who allegedly shot at and wounded two police officers in front of Palazzo Chigi, the official residence of Italy’s Prime Minister, late last month. And yet it is hard not to see something symbolic in the shooting, which occurred at the same time Italy’s new government was being sworn in. Preiti reportedly told police that he wanted to kill politicians, and anger against Italy’s political class has been the dominant mood in the country recently; politicians are routinely compared to zombies and vampires. In elections held in February, the Five Star Movement, a protest group led by the comedian Beppe Grillo, came out of virtually nowhere—with almost no television coverage or advertising—to win an astonishing twenty-five per cent of the vote on the anti-politician slogan Tutti a casa!” (“Send them all home”). Italians have only grown angrier and more frustrated since then, as they have watched an election with a central message of “change,” written in the biggest possible letters, result in the formation of a government that looks very much like those that came before it.
In some ways, the newly formed government of Enrico Letta, an alliance of left and right that includes both the main center-left party, the Democratic Party, and the former Prime Minister Silvio Berlusconi’s center-right People of Liberty party, seems new: at forty-six, Letta is one of Italy’s youngest Prime Ministers; his cabinet contains more women than any before it, along with the country’s first minister of color. In other aspects, it is eerily familiar. Letta himself began his career as a member of the Christian Democrats, the party that governed Italy from 1946 until 1993, and his uncle, Gianni Letta, is one of Berlusconi’s closest advisers and an old Christian Democrat himself. And the country’s President is still Giorgio Napolitano, an eighty-seven-year-old who’s been in office since 2006. More troubling than the government’s content is the means by which it was formed: the usual bargaining among the big parties, exactly the kind of self-interested insider power politics that Italians have come to hate. Coupled with all of this is the death, on Monday, of seven-time Prime Minister Giulio Andreotti—a pillar of post-Second World War Italy—which makes the old political order, itself no picnic, seem like a golden age of ordinary dysfunction compared to today’s new hyper-dysfunction.
February’s elections may have sent a clear message of change, but they did not produce a government to accomplish it. The left-of-center coalition, headed by the Democratic Party, won the largest share of the vote, with thirty per cent. In theory, this was a victory; in reality, it was a defeat, one that has only been compounded since the vote. By all logic, it was an election the left stood to win handily, thanks to the failures of Berlusconi, who was forced to resign his post in 2011 with the country on the brink of financial collapse, but it managed to prevail by only the narrowest of margins. Even so, leftists still came away with an opportunity to form the first left-wing government in modern Italian history. They failed, in spectacular fashion, to capitalize on it.
The Democratic Party, under the leadership of Pier Luigi Bersani, ran a bland, lackluster campaign that lacked a clear identity. “People didn’t know what we stood for,” Rosy Bindi, a party leader, said in a recent interview with La Repubblica. “Grillo stood for ‘Send them home!’ Berlusconi stood for ‘No property tax!’ But what did we stand for?” As a result, the Democratic Party and its coalition barely out-performed both Berlusconi and Grillo, and found itself in desperate need of a new partner.

The first natural place for the Democratic Party to turn after the elections was Grillo. Many in the party greeted the comedian’s stunning success as a welcome wake-up call, an opportunity to pursue a strong reformist and progressive agenda and regain an identity that had been blurred through compromises made in the course of cobbling together shaky centrist coalitions. Bersani’s strategy was to adopt the more reasonable proposals of the Grillo program—a new electoral law, reducing the number of and salary for members of parliament, a conflict-of-interest law, and a corruption law—and to ask for Grillo’s help in passing important pieces of the Democratic Party’s agenda. The left had successfully done this in Sicily, where the local Democratic Party has, with the Grillo movement’s help, made several positive steps, including, most importantly, the elimination of the area’s provincial governments—a costly and redundant structure on top of the municipal and regional governments that was mainly a source of political patronage and corruption. Bersani tried, quite cleverly, to maneuver Grillo into a similar solution on a national level in the elections for the presidency of the Italian Senate, in which he needed Grillo votes to get his chosen candidate approved. While Berlusconi offered Renato Schifani, a former mafia lawyer, as his candidate, Bersani—to everyone’s surprise—proposed the anti-mafia prosecutor Piero Grasso, thus forcing Grillo’s movement to face a stark choice: A mafia lawyer or someone who has dedicated his life to fighting the mafia? Although Grillo had strictly forbidden his followers in parliament from joining any coalition with other parties, the Grasso choice was too much for some of them, and a handful of defectors used the Senate’s secret voting process to elect Grasso and defeat Schifani. Bersani had hoped that there would be room for coöperation with the substantial group of Grillo’s followers who were prepared to support a reformist agenda. But he had not reckoned with the intransigence of Grillo and the strange, non-traditional nature of his movement. Grillo was furious, and threatened to excommunicate anyone who broke with party discipline. And his response to Bersani’s overtures was to call Bersani “a dead man walking” and repeat his goal: send all the politicians home, win a hundred per cent of the vote in future elections, and replace the party system with some form of direct, Internet-based democracy.
Members of the Democratic Party hoping to establish good relations with the scores of newly elected Five Star Movement deputies found it rough going. When I visited the Italian parliament in late March, many deputies I interviewed said that they had never met or spoken with a Five Star deputy. Grillo’s followers—many in their early twenties and showing up to their new jobs wearing baseball caps and carrying backpacks—resolutely refused to join the daily life of the Italian parliament, where deputies sit around on couches in the elegant long room outside the voting chamber or schmooze at the bar of the Lower House. One leading Five Star deputy even refused to shake hands with the Democratic Party leader Rosy Bindi when Bindi tried to introduce herself. Many of the “Grillini” showed up to work and placed can-openers on their desks to signify that they were going to open up the parliament and expose its corrupt ways. “The Grillini are nowhere around,” one member told me. “They move in groups so that they can keep an eye on each other and avoid individual members talking with us and becoming corrupted.”

The candidates on the Grillo slate were initially selected in online primaries involving an estimated twenty thousand people. Few of them had prior political experience. Many were young: students, unemployed or in the workforce for only a few years. This non-traditional group was precisely what Grillo had promised, but to some critics it seems more like a personality cult than a political movement. Some of the Five Star deputies, left to their own devices, might well have offered their support to Bersani’s proposed alliance, but Grillo, although himself not a member of parliament, was adamantly opposed, and maintained his group’s internal cohesion.
To make matters much more complicated, along with patching together a government, the newly elected parliament needed to vote in a new President of the Republic. Italy found itself in a devilish Catch-22: the President is the only one who can select someone to form a government (or dissolve parliament), but it is the parliament that must elect the President. And with Napolitano’s seven-year term about to end, Italy was rapidly approaching the point of having neither a government nor a President. And so, a parliament without a cohesive majority needed to quickly elect a new President before Napolitano’s original term ran out. Here, Bersani made what may go down in history as a genuinely tragic mistake. He did the one thing he absolutely shouldn’t have done: engage in direct one-on-one negotiations with Berlusconi. These private talks produced a mutually agreeable candidate, Franco Marini, a former labor leader and former president of the Italian Senate. Marini is a man of considerable merit, but he is also eighty years old, and as a candidate chosen through a back-room deal with Berlusconi he represented exactly the old-fashioned politics-as-usual that Bersani had promised to avoid. Quite predictably, the deal blew up in Bersani’s face. He was met with a massive internal rebellion from his party; Marini was voted down. And when Bersani tried to placate his fellow Democrats by proposing the more acceptable figure of Romano Prodi, his own party rejected that solution, too, forcing Bersani to resign as party secretary. It was a stunning sequence of events: in about forty-eight hours, Bersani had gone from being the head of the country’s largest political force to being a humiliated member of a party that had been reduced to a smoking ruin. It was a chilling spectacle—like watching someone commit hara-kiri in public. After that, the Democrats were terrified of being slaughtered in new elections, and were prepared to agree to almost anything. In order to stop the hemorrhaging, Bersani and most of his party quickly agreed to the humiliating solution of getting Napolitano to stay on a little longer. And so a shot-gun marriage with Berlusconi (which they had said they would never agree to) was arranged, and Enrico Letta was chosen to head the new government.

The traditional left in Italy is in deep despair, and Bersani may have signed his own party’s death warrant. Both Berlusconi and Grillo are in good positions to profit from his mistakes whenever the next elections arrive. (Although national elections are technically scheduled to be held five years from now, a vote will be held before then if the government falls, and given the shaky and contentious nature of this coalition it is reasonable to expect exactly that.) All that said, it is not impossible that something decent may come of the present government. Letta is a shrewd man, and everyone in his party understands that if they fail to make at least some real progress toward reform and economic health they will be flayed alive in the next elections. Some of Italy’s better governments of recent years—the governments of Giuliano Amato, in 1992, and Carlo Azeglio Ciampi, in 1993—did some excellent things because the country’s then-major parties were fighting for their lives. Letta, who is a determined supporter of the E.U., is already using his good relations with German Chancellor Angela Merkel to give Italy some room for easing up on austerity measures. He is trying to move ahead with reducing the size and generous pay of the Italian parliament—a symbolic measure, to be sure, but an important symbol. Still, it’s hard to see how he can move on a variety of important issues, like an anti-corruption law, conflict-of-interest legislation, or major economic reforms, on which he is likely to encounter intense resistance from Berlusconi.
The genuine tragedy for Italy is that all of this inside-baseball politics occurs against a truly bleak picture for many of the country’s sixty million residents. Italy’s G.D.P. has grown hardly at all in twenty years. It has the highest level of inequality in Western Europe and the actual standard of living of millions of working Italians has dropped. The country has a bloated government sector but has failed to invest in important things like research and development. Taxes are exorbitantly high for those who are forced to pay them, but millions of self-employed Italians pay a fraction of what they should. Youth unemployment is at forty per cent, and many younger workers live at home well into their thirties because all they can find are temporary, low-paying jobs. Reversing this deeply-entrenched set of related problems would be a tall order for any government, but the task will be even harder for Letta, who must not only grapple with all these issues but somehow find a way to create order out of a government built in chaos.

venerdì 24 maggio 2013

Alberto Toscano - The last stand of Italy's bankrupt political class @ The Guardian, Uk, 30 April 2013 + A reply by Romy Clark Giuliani @ The Guardian, 3 May 2013



The last stand of Italy's bankrupt political class

by Alberto Toscano
@ The Guardian,  30 April 2013

A deal with the devil Berlusconi may shore up this dictatorship of the bourgeoisie. Can it last in a land pulsing with atomised rage?
On Sunday a new government was formed in Italy. Led by Enrico Letta, a moderate member of the Partito Democratico (PD), it is the first "grand coalition" the country has seen since the signing of the postwar constitution in 1947. Commentators have already pointed to other firsts: the youngest cabinet in Italian history (average age 53); that with the highest proportion of female ministers (a third); and the first black minister (Cécile Kyenge, the minister for integration, whose appointment has already drawn racist comments from the Northern League). Yet despite the veneer of novelty, Lampedusa's dictum from his novel The Leopard still sums up Italy's predicament: "If we want things to stay as they are, things will have to change." To grasp why, a little history is in order.
The new government was effectively imposed by Italy's octogenarian president Giorgio Napolitano, who was returned to an extraordinary second seven-year term in office by the implosion of the PD during the parliamentary presidential voting. Having failed to get the Christian Democrat trade unionist Franco Marini appointed in the first two votes, after dissent from its left wing – and in the face of the inspired proposal of Beppe Grillo's Five Star Movement to make the progressive jurist Stefano Rodotà its own candidate – the PD had a paper majority to elect Romano Prodi, the only politician its camp has produced in the past 20 years who has actually defeated Berlusconi.
But 101 of its members – "defectors" – killed the candidacy in a secret ballot. Napolitano, who had already enabled the appointment as prime minister of Mario Monti after Berlusconi's exit over a looming sovereign debt crisis, then returned under the sign of national emergency, with the moral authority to demand a "government of the president".
Far from a turnaround, this is in many ways the logical conclusion of Napolitano's political career: having joined the Italian Communist party after the collapse of fascism, he has always been a strong proponent of a "historical compromise": an alliance between communists and Christian Democrats to overcome economic crisis and political turmoil. This was an ill-conceived idea in its own time, and today a left-right compromise looks like nothing but a ruse to salvage a political class buffeted by Grillo's digital populism and widespread public contempt.
The orchestrators of the coup in the PD that gave Napolitano the power to form a government (many suspect the machinations of Massimo D'Alema, whose cynical dealings with Berlusconi are a matter of record) clearly wished to see off the challenge of Grillo's Five Star Movement, and chose to consolidate the implicit left-right alliance that already supported Monti's austerity government. Berlusconi was recast as the lesser evil, even if for the bulk of the PD's supporters – some of whom have taken to burning their membership cards – this is a pact with the devil. Berlusconi has effectively forced his opponents to acquiesce to his conditions – including renegotiating the IMU property tax and appointing his second-in-command, Angelino Alfano, as minister of the interior. All this while "il Cavaliere" is still facing plural indictments.
This government is the last stand of a political class that is unable to generate a concerted, popular and legitimate vision of Italy's path through and out of the crisis. Like the Monti government, it could be termed a dictatorship of the bourgeoisie: a government with no popular mandate, to rule for a limited if ill-defined period, and whose principal task is kick-starting an economic recovery defined not in terms of social needs but "growth": profit-making and exploitation.
Though pious noises are made about youth unemployment and insecurity, it will no doubt continue with the recipe that has been rolled out over the past 20 years: privatisations and reforms that make capital more predatory and labour more insecure. The spread in government bond yields between Italy and Germany, which seems to have become the sole cipher of our political future, appears already to be decreasing, though, so all must be well.
Fabrizio Saccomanni, the new minister of the economy – also director of the Bank of Italy, an architect of the Maastricht treaty and former employee of the IMF – tells us, with unshaken economic idealism, that it's all a matter of restoring "confidence", and that his priority will be helping businesses and the weakest members of society. How he plans to square that circle is not clear in a southern Europe gripped by crisis: the remedy is just more of the disease, with the inevitable consequences for political legitimacy and social conflict that we've already witnessed in Greece.
Will this government last? It's difficult to say. The PD can barely face its own members and after the recent shambles it risks the fate of the Greek Pasok. Berlusconi has nothing to lose and will wield tremendous power, not to mention continuing to shield himself from the law. Grillo and the Five Stars may capitalise on the government's intransigence, now that the party system has proven itself to be as cravenly cynical as they had always claimed.
Outside the walls of power of what Pasolini castigated as il Palazzo, there is an angry and anxious country. Atomised rage has already manifested itself with a man shooting two carabinieri outside the prime minister's residence during the swearing in. The only hope now lies in those movements that will be able to socialise that rage to fight for the public good and common needs, and not to reproduce a system that is so desperately and disastrously trying to reproduce itself.
                                                §§§§§§§§§                                          
As a member of the former Italian Communist party (PCI), can I respond to two assertions made by Alberto Toscano in his article on the new Italian government (Comment, 30 April)?
First, he claims that the proposed historic compromise, supported by Giorgio Napolitano, referred to an alliance between communists and Christian Democrats and that it was "an ill-conceived idea in its own time". In fact, Eric Hobsbawm, in his extended interview with Napolitano in the mid-70s, explained it more accurately when he said that Berlinguer, then leader of the PCI, observed that the historic compromise must be conceived not as a mere political alliance, but as a mobilisation of a broad range of diverse social groups. The proposal was set out in three articles written by Berlinguer in 1973, after the coup in Chile. Berlinguer talked of a coming together of the three strands of popular socio-cultural and political traditions in Italy – communist, socialist and Catholic – as a possible way forward in the light of the Chilean experience. It was never about a compromise with the Christian Democratic party as such, rather with the Catholic left movement.
Second, Toscano claims the Partito Democratico formed the present government coalition because it wanted to see off Beppe Grillo's Five Star Movement. This was not the case at all. The PD, under Pier Luigi Bersani, tried to negotiate a political, policy-based agreement with Grillo, who refused. Grillo is nothing but a dangerous anti-politics clown who is holding the country to ransom and, as a result of his populist demagoguery, the present government was the only viable alternative to fresh elections. It is Grillo's so-called challenge that is responsible for Berlusconi being back in a position to dictate terms.
Romy Clark Giuliani
Lancaster

mercoledì 22 maggio 2013

Gillian Youngs (Ed.) - Digital World. Connectivity, Creativity and Rights - Routledge, Uk, June 2013


The Internet and digital technologies have changed the world we live in and the ways we engage with one another and work and play. This is the starting point for this collection which takes analysis of the digital world to the next level exploring the frontiers of digital and creative transformations and mapping their future directions. It brings together a distinctive collection of leading academics, social innovators, activists, policy specialists and digital and creative practitioners to discuss and address the challenges and opportunities in the contemporary digital and creative economy.
Contributions explain the workings of the digital world through three main themes: connectivity, creativity and rights. They combine theoretical and conceptual discussions with real world examples of new technologies and technological and creative processes and their impacts. Discussions range across political, economic and cultural areas and assess national contexts including the UK and China. Areas covered include digital identity and empowerment, the Internet and the ‘Fifth Estate’, social media and the Arab Spring, digital storytelling, transmedia and audience, economic and social innovation, digital inclusion, community and online curation, cyberqueer activism. The volume developed out of a UK Economic and Social Research Council funded research seminar series.
Introduction Digital world: connectivity, creativity and rights Gillian Youngs, University of Brighton Part I: Connectivity Chapter 1. Innovation challenges in the digital economy Damian Radcliffe, Cardiff University and ictQATAR Chapter 2. Politics of digital development: informatization and governance in China Xiudian Dai, University of Hull Chapter 3. Digital inclusion: a case for micro perspectives Panayiota Tsatsou, Swansea University Chapter 4. Social innovation and digital community curation Matt Chilcott, University of Glamorgan and CMC2 Monmouthshire Part II: Creativity Chapter 5. Creativity and digital innovation David Gauntlett, University of Westminster Chapter 6. Digital story and the new creativity Hamish Fyfe, University of Glamorgan Chapter 7. Photography’s transformation in the digital age: artistic and everyday forms Mark Durden, University of Wales, Newport Chapter 8Transmedia storytelling and audience: memory and market Colin B. Harvey, University of Western Sydney and London South Bank University Part III: Rights Chapter 9. The Fifth Estate of the digital world William H. Dutton and Elizabeth Dubois, Oxford Internet Institute, University of Oxford Chapter 10. Economic innovations and political empowerment Khaled Galal, Communications Consultant Chapter 11. A cyberconflict analysis of the 2011 Arab Spring Athina Karatzogianni, University of Hull Chapter 12. Cyberqueer perspectives on rights and activism Tracy Simmons, University of Leicester
Gillian Youngs is Professor of Digital Economy and has been researching diverse aspects of the internet's impact on society and economy for 15 years developing out of her early focus on globalisation. She has given invited keynote and guest papers internationally in the US, China, South Korea, Turkey, Hungary, Germany, Holland, Spain, Austria, Tanzania.


Tony Milligan - Civil Disobedience Protest, Justification and the Law - Bloomsbury, Uk, April 2013


Civil disobedience is a form of protest with a special standing with regards to the law that sets it apart from political violence. Such principled law-breaking has been witnessed in recent years over climate change, economic strife, and the treatment of animals. 

Civil disobedience is examined here in the context of contemporary political activism, in the light of classic accounts by Thoreau, Tolstoy, and Gandhi to call for a broader attitude towards what civil disobedience involves. The question of violence is discussed, arguing that civil disobedience need only be aspirationally non-violent and that although some protests do not clearly constitute law-breaking they may render people liable to arrest. For example, while there may not be violence against persons, there may be property damage, as seen in raids upon animal laboratories. Such forms of militancy raise ethical and legal questions.

Arguing for a less restrictive theory of civil disobedience, the book will be a valuable resource for anyone studying social movements and issues of political philosophy, social justice, and global ethics.


Table of contents:
1 The Occupy Movement
2 A problematic concept 
3 The argument from below
4 Reactionary disobedience over abortion
5 Disobedience in defense of cruelty
6 Thoreau, conscience, and the state 
7 Tolstoy’s politicization of love
8 Gandhi and satyagraha
9 King, pragmatism, and principle
10 Defending the environment
11 Open rescue and animal liberation
12 Covert animal rescue
13 The higher law

14 The question of violence


Tony Milligan is an Honorary Research Fellow in Philosophy at the University of Aberdeen, UK. He has published in a number of academic and popular journals, including PhilosophyRatio, theJournal of Applied EthicsThink and Philosophy Now.