giovedì 27 dicembre 2012

David Graeber - Debito. I primi 5.000 anni - Il Saggiatore, It, 2012


David Graeber, l’antropologo alle origini del movimento di Seattle e del movimento Occupy (suo lo slogan «Siamo il 99%»), rivoluziona la teoria sociale ed economica in un libro destinato a rimanere nel tempo. In uno stile colloquiale e diretto, attraverso l’indagine storica, antropologica, filosofica, teologica, Graeber ribalta la versione tradizionale sulle origini dei mercati. Mostra come l’istituzione del debito sia anteriore alla moneta e come da sempre sia oggetto di aspri conflitti sociali: in Mesopotamia i sovrani dovevano periodicamente rimediare con giubilei alla riduzione in schiavitù per debiti di ampie fasce della popolazione, pena la deflagrazione di tutta la società. Da allora, la nozione di debito si è estesa alla religione come cifra delle relazioni morali («rimetti a noi i nostri debiti») e domina i rapporti umani, definendo libertà e asservimento. Mercati e moneta non sorgono automaticamente dal baratto, come sostengono gli economisti fin dai tempi di Adam Smith, ma vengono creati dagli stati, che tassano i sudditi per finanziare le guerre e pagare i soldati. In quest’ottica, il conio della moneta si diffonde per imporre la sovranità dello stato e assicurare il pagamento uniforme dei tributi. L’economia commerciale, basata sulla calcolabilità impersonale, eclissa così le economie umane, basate sulla reciprocità personale. Gli ultimi 5000 anni di storia hanno visto l’alternarsi di fasi di moneta aurea e moneta creditizia, fino al definitivo abbandono dell’oro come base del sistema monetario internazionale nel 1971. Graeber guarda agli sviluppi di Europa, Medio Oriente, India e Cina, e individua tre grandi cicli nella lunga storia del debito. L’Età assiale (dall’800 a.C. al 600 d.C.), in cui si impone il potere di conio degli imperi e le grandi religioni fanno la loro comparsa. Il Medioevo, dove l’economia viene demonizzata, in Europa come in Cina. L’età degli imperi capitalisti, delle grandi conquiste e del ritorno allo schiavismo, che vede il mondo inondato d’oro e d’argento. Graeber esplora infine la crisi attuale, nata dall’abuso di creazione di strumenti finanziari ilSaggiatore da parte delle grandi banche deregolamentate, esostiene la superiorità morale di cittadini e stati indebitati rispetto a creditori corrotti e senza scrupoli che vogliono ridurre libertà e democrazia alla misura dello spread sui titoli pubblici. David Graeber (1961) è un antropologo e un attivista. È stato professore a Yale, da dove è stato allontanato, qualcuno sostiene per ragioni politiche. Oggi insegna Antropologia sociale presso la Goldsmiths, University of London.

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RIVOLUZIONARI 2.0 @ D La Repubblica delle Donne
Cambiare il mondo si può, magari a colpi di parole. Lo pensa David Graeber, leader del movimento Occupy Wall Street
David Graeber, teorico e fondatore di Occupy Wall Street, il movimento di contestazione pacifica che denuncia gli abusi del capitalismo finanziario angloamericano, è seduto di fronte a me, in una tavola calda romana. Graeber, cinquantunenne con una faccia da ragazzo, professore universitario (ha una cattedra di antropologia sociale alla Goldsmiths University di Londra, ma ha insegnato a Yale, da dove pare sia stato allontanato per motivi politici), nel settembre 2011 è stato l’anima dell’occupazione dello Zuccotti Park a New York. Due mesi prima era uscito il suo libro Debito. I primi 5.000 anni : ora Il Saggiatore lo pubblica in Italia. Si tratta di un’indagine storica, antropologica, filosofica e teologica, che ribalta la versione tradizionale sull’origine dei mercati e parla di capitalismo corrotto, ma anche di chi l’ha ispirato e sostenuto.
Mister Graeber, il libro parla di “confusione morale” attorno al concetto di debito. Che cosa intende esattamente?
«Guardando agli ultimi cinquemila anni di storia, ho scoperto che è stato sempre legato a una concezione fortemente moralista, nel senso che pagare un debito è ritenuto un comportamento moralmente doveroso. Nello stesso tempo si pensa che gli usurai (e chi presta soldi per interesse) siano malvagi. Ma se si ragiona sul tema, si capisce che le cose non sono così lineari. E ho iniziato a farmi domande».
Non crede che pagare un debito sia giusto?
«Certo che è giusto! Ma non credo che il debito abbia un valore maggiore rispetto a qualsiasi altra forma di promessa. Eppure solo le promesse “quantificate” assumono un peso morale. Tutto questo non ha senso…».
Ha una sua alternativa al capitalismo anglo-statunitense?
«Non è possibile sviluppare un piano di azione per sostituire il capitalismo, ma vorrei assistere alla costruzione di strutture realmente democratiche, in modo che le persone possano scegliere il sistema economico che desiderano».
Qualche anno fa ha detto di voler lanciare una rivoluzione in tutto il mondo. Pare che ci stia riuscendo…
«L’avevo detto un po’ per scherzo, ma credo che, quando il movimento Occupy Wall Street è esploso, ci fosse già una rivoluzione mondiale in corso. Certo, nel momento in cui ha raggiunto l’intero territorio statunitense l’impatto è stato enorme. Io ho svolto il ruolo di legame generazionale tra i militanti più adulti che contestavano la globalizzazione e gli attivisti più giovani. Sono stato l’anello di congiunzione tra le reti politiche europee e quelle Usa».
E le donne? Che ruolo hanno avuto?
«Le donne hanno sempre un’importanza enorme. Nei primi movimenti sociali si occupavano del lavoro vero, mentre gli uomini stavano sul palco, facevano i discorsi e partecipavano ai grandi conflitti. Con Occupy Wall Street abbiamo cercato di eliminare questa differenza ingiusta: chi lavora davvero partecipa anche alla leadership del movimento. E si tratta principalmente di donne».
Qualche esempio concreto?

«Partendo dalla mia esperienza personale, prima di Occupy Wall Street sono stato coinvolto nei movimenti contro i tagli in Gran Bretagna. Facevo parte di un gruppo, Arts against cuts , che mi è stato presentato da una scultrice, Sophie Carapetian. Quando sono tornato a New York, la persona che mi ha reintrodotto nel dibattito politico è stata una donna, la video-maker Marisa Holmes. E poi c’è un’altra attivista, la pittrice Colleen Asper: grazie a lei ho conosciuto Georgia Sagri, una performer anarchica greca. Con loro, a Manhattan, ho cominciato a costruire la prima assemblea generale di Occupy Wall Street. Alla fine mi sono reso conto che tutti i miei contatti più importanti erano giovani donne artiste».
Che cosa rende le donne più attive degli uomini?
«Sono più efficaci, migliori nella cooperazione e più attente ad ascoltare gli altri».
C’è una spiegazione?

«Da una parte lo impone il modello culturale classico, dall’altra le donne si trovano perennemente in una condizione marginale e per partecipare ai processi decisionali devono capire tutto e in anticipo, rispetto ai colleghi maschi. Chi invece ha il monopolio del potere può permettersi il lusso di non ascoltare o di vedere solo ciò che vuole vedere».
Le è mai successo di cambiare idea grazie a una donna?
«Continuamente».
Che cosa pensa la sua compagna dell’impegno politico?«Erika è più radicale di me. È un’attivista anarco-femminista, ha il compito di ricordarmi l’umiltà e che tutto ciò che faccio non è solo mio, ma appartiene alla collettività».
Si dice che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna.
«Spesso, più di una! (e ride, ndr )».

DEBT THE FIRST 5,000 YEARS - DAVID GRAEBER - MELVILLE HOUSE, USA, 2011



DEBT

THE FIRST 5,000 YEARS

DAVID GRAEBER

“Graeber’s most important contribution to the movement may owe less to his activism as an anarchist than to his background as an anthropologist. His recent book DEBT: The First 5,000 Years (Melville House, $32) reads like a lengthy field report on the state of our economic and moral disrepair. In the best tradition of anthropology, Graeber treats debt ceilings, subprime mortgages and credit default swaps as if they were the exotic practices of some self-destructive tribe. Written in a brash, engaging style, the book is also a philosophical inquiry into the nature of debt — where it came from and how it evolved. Graeber’s claim is that the past 400 years of Western history represent a grievous departure from how human societies have traditionally thought about our obligations to one another. What makes the work more than a screed is its intricate examination of societies from ancient Mesopotamia to 1990s Madagascar, and thinkers ranging from Rabelais to Nietzsche — and to George W. Bush’s brother Neil.”
Thomas Meaney, New York Times Book Review(Read the whole article)
Every economics textbook says the same thing: Money was invented to replace onerous and complicated barter systems—to relieve ancient people from having to haul their goods to market. The problem with this version of history? There’s not a shred of evidence to support it.
Here anthropologist David Graeber presents a stunning reversal of conventional wisdom. He shows that 5,000 years ago, during the beginning of the agrarian empires, humans have used elaborate credit systems. It is in this era, Graeber shows, that we also first encounter a society divided into debtors and creditors.
With the passage of time, however, virtual credit money was replaced by gold and silver coins—and the system as a whole began to decline. Interest rates spiked and the indebted became slaves. And the system perpetuated itself with tremendously violent consequences, with only the rare intervention of kings and churches keeping the system from spiraling out of control. Debt: The First 5,000 Years is a fascinating chronicle of this little known history—as well as how it has defined human history, and what it means for the credit crisis of the present day and the future of our economy.
David Graeber teaches anthropology at Goldsmiths, University of London. He is the author of Towards an Anthropological Theory of ValueLost People: Magic and the Legacy of Slavery in MadagascarFragments of an Anarchist AnthropologyPossibilities: Essays on Hierarchy, Rebellion, and Desire, and Direct Action: An Ethnography. He has written for Harper’sThe NationMute, and The New Left Review. In 2006, he delivered the Malinowski Memorial Lecture at the London School of Economics, an annual talk that honors “outstanding anthropologists who have fundamentally shaped the study of culture.” 

Read the Debt first 23 pages on ISSU

David Eden - Autonomy Capitalism, Class and Politics - Ashgate, Uk, September 2012


Autonomy: Capital, Class and Politics explores and critiques one of the most dynamic terrains of political theory, sometimes referred to as 'Autonomist Marxism' or post-Operaismo. This theory shot to prominence with the publication of Empire by Hardt and Negri and has been associated with cutting edge developments in political and cultural practice; yet there exists no work that critically examines it in its contemporary breadth.

Taking three divergent manifestations of Autonomist Marxism found in the works of Antonio Negri and Paolo Virno, the Midnight Notes Collective and John Holloway, David Eden examines how each approach questions the nature of class and contemporary capitalism and how they extrapolate politics. Not only is such juxtaposition both fruitful and unprecedented but Eden then constructs critiques of each approach and draws out deeper common concerns. 

Suggesting a novel rethinking of emancipatory praxis, this book provides a much needed insight into the current tensions and clashes within society and politics.


Contents: Introduction; The perspective of autonomy; Life put to work, the theory of Antonio Negri and Paulo Virno; Exodus and disobedience, the political practice of the republic of the multitude; Critique: value, fetishism, the commodity and politics; The new enclosures: the theory of the Midnight Notes collective; Jubilee, the political practice of the commons; A critique of the Midnight Notes collective; In the beginning is the scream; the theory of John Holloway; One no, many yeses: the political practice of anti-power; A critique of Holloway; Conclusion; Bibliography; Index.

David Eden, Griffith University, Australia and The University of Queensland, Australia.

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ECONned How Unenlightened Self Interest Undermined Democracy and Corrupted Capitalism - Yves Smith - Palgrave Macmillan, Usa, October 2011




Why are we in such a financial mess today?  
There are lots of proximate causes: over-leverage, global imbalances, bad financial technology that lead to widespread underestimation of risk.
But these are all symptoms. Until we isolate and tackle fundamental causes, we will fail to extirpate the disease.  ECONned is the first book to examine the unquestioned role of economists as policy-makers, and how they helped create an unmitigated economic disaster.
Here, Yves Smith looks at how economists in key policy positions put doctrine before hard evidence, ignoring the deteriorating conditions and rising dangers that eventually led them, and us, off the cliff and into financial meltdown.  Intelligently written for the layman, Smith takes us on a terrifying investigation of the financial realm over the last twenty-five years of misrepresentations, naive interpretations of economic conditions, rationalizations of bad outcomes, and rejection of clear signs of growing instability. 
In eConned, author Yves Smith reveals:
--why the measures taken by the Obama Administration are mere palliatives and are unlikely to pave the way for a solid recovery
--how economists have come to play a profoundly anti-democratic role in policy
--how financial models and concepts that were discredited more than thirty years ago are still widely used by banks, regulators, and investors
--how management and employees of major financial firms looted them, enriching themselves and leaving the mess  to taxpayers
--how financial regulation enabled predatory behavior by Wall Street towards investors
--how economics has no theory of financial systems, yet economists fearlessly prescribe how to manage them
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martedì 25 dicembre 2012

Tina Brown - A New Chapter @ Newsweek, 24 December 2012


The issue in your hand is the last edition of Newsweek in print. The next, in the first week of January, will be on your iPad or Kindle or phone. By late February, you will see the full evolution of the spanking-new, all-digital Newsweek Global, currently in development.
It’s been a turbulent two-year journey, culminating in our decision to leave print and take the leap into a digital future. In 2010 the 92-year-old audio tycoon Sidney Harman bought a moribund Newsweek from the Washington Post Co. for a dollar in a quixotic bid to save a legendary magazine. Shortly after, the incurable old romantic asked The Daily Beast, the news site I founded with Barry Diller’s IAC in 2008, for its hand in marriage. And it’s been a blast.
The first days were distinctly unpromising. Most of the boldface bylines and star writers who defined the brand had flown the Newsweek coop by the time the deal was done. There was no executive editor atNewsweek, no news editor, no managing editor, no features editor, no Washington bureau chief, no “back of the book” department still standing. Advertisers had peeled off, too, in droves. Where once Newsweek had been housed in its own building, its proud logo in the eye-line of its swaggering competitor in the Time-Life Building, it was now lurking in an office labyrinth near Wall Street reminiscent of the Stasi headquarters in East Berlin. The watchful eyes of the remainingNewsweek personnel who had or had not decided to “take the buy-out” peered from behind pale gray cubicle walls at the jaunty Daily Beast crew, crowded together down the other end. They were separate tribes, segregated as if at a soccer match.

This morose office comedy, however, was soon overpowered by one of the most amazing news cycles in my professional memory: the tectonic Arab Spring, the mind-boggling tsunami in Japan, the operatic killing of bin Laden, and the lynching of Gaddafi. There is no better way to judge the health of a news organization than by how it rises to unscripted examination. And what was gratifying was how our buffeted band of “NewsBeast” writers and editors, women and men who scarcely knew each other, swiftly became a ninja news army, packing as much heat for Newsweek as they did for The Daily Beast.
Newsweek’s Paris bureau chief and Middle East editor Chris Dickey spent the early part of 2011 as a one-man Arab Spring bureau. In January he co-wrote the gripping story of how the Tunisian president and his family had run a mafia state; three weeks later, in his authoritative account of Hosni Mubarak’s fall, he traced how the death of a grandson had knocked the stuffing out of the despot even before the revolution called for his demise. Mike Giglio, a young reporter recruited from the unlikely launchpad of the Newsweek licensing department, wrangled a series of scoops for the Beast and the magazine on the Egyptian activist Wael Ghonim. The end of Osama in May 2011 triggered a NewsBeast marathon. The newly combined staffs crashed out, in addition to a regular issue, a riveting Osama special in a day and a half.

Sami Yousafzai, Newsweek’s veteran correspondent covering Afghanistan and Pakistan, drove all night to Abbottabad to upload some of the first pictures of the bin Laden compound and extract information from the shell-shocked neighbors, even as CIA teams cordoned off the area to search for forensic evidence. Less than 24 hours after the attack, Daily Beast readers were treated to eyewitness accounts of the Navy SEAL operation. Three days later,Newsweek published the definitive account of bin Laden’s life on the lam. For the Beast, Yousafzai, along with our Islamabad bureau chief, the indefatigable Ron Moreau, went on to get a string of exclusive interviews with the Taliban high command on the new balance of radical power. This feat was pulled off while we were producing, at the very same time, a highly successful glossy souvenir issue on the royal wedding.

In the middle of all this mayhem, Sidney Harman, Newsweek’s peerless knight, suddenly died from complications of leukemia. We honored him in the way he would have appreciated best, by continuing to produce a great magazine. We also moved the now fully merged teams into IAC’s spectral, white-glassed Frank Gehry building in New York’s meatpacking district, where the pace continued unabated. (...)
Blogpics: The first issue, from 1933: FDR’s election, the Depression, and Hitler; and in 2012 Newsweek re-created the sleek style of an issue from the Mad Men days of the 1960s.



Addio a Newsweek di carta, copertina con hashtag sull'ultimo numero @ Corriere della sera, 24.12.2012


#Lastprintissue. Con un titolo preceduto da un hashtag il settimanale Newsweek chiude i suoi 80 anni di gloriosa «carta stampata» per passare in modo esclusivo all'online con un'edizione chiamata Global Newsweek. L'immagine di copertina (GUARDA) dell'ultimo numero, datato 31 dicembre, postata anche su twitter, mostra una fotografia in bianco e nero del vecchio edificio del Newsweek di New York che la rivista aveva già lasciato nel 1994.

EVOLUZIONE - L'annuncio ufficiale del passaggio al digitale era stato dato nell'ottobre scorso dalla direttrice Tina Brown: un cambio che non sarà indolore perché comporterà diversi tagli al personale. Le difficoltà finanziarie si sono aggravate nel 2010 dopo la fusione con The Daily Beast. I dirigenti comunque hanno voluto sottolineare che il passaggio al web è solo un'evoluzione della rivista, non la sua fine. Dal 1° gennaio 2013 il settimanale sarà dunque solo online.

lunedì 24 dicembre 2012

Paul Krugman - End This Depression Now! - W.W.Norton & Company, Usa, April 2012


A call-to-arms from Nobel Prize–winning economist and best-selling author Paul Krugman.
The Great Recession is more than four years old—and counting. Yet, as Paul Krugman points out in this powerful volley, "Nations rich in resources, talent, and knowledge—all the ingredients for prosperity and a decent standard of living for all—remain in a state of intense pain." 

How bad have things gotten? How did we get stuck in what now can only be called a depression?
And above all, how do we free ourselves? Krugman pursues these questions with his characteristic lucidity and insight. He has a powerful message for anyone who has suffered over these past four years—a quick, strong recovery is just one step away, if our leaders can find the "intellectual clarity and political will" to end this depression now.


Augusto Illuminati: recensione di "Rivolta o Barbarie" di Francesco Raparelli @ Alfabeta2, n.25, Novembre-Dicembre 2012


Questa è la settimana decisiva per l’Europa (o per la Grecia, o per l’euro o per quant’altro volete). Così quotidiani e TV annunciano il rinvio interminabile dell’assoluzione, secondo una metafora che Raparelli trae da Kafka applicandola alle diagnosi sulla crisi sfornate ogni giorno per coprire i suoi effetti nell’aggressione ai redditi e al welfare dei ceti subalterni. Fin quando durerà la colpevolizzazione con l’accusa di aver vissuto al di sopra dei propri mezzi, fin quando sarà dilazionata un’assoluzione che coincide con la miseria? Per Raparelli il «processo» si interromperà solo con la resistenza delle masse all’espropriazione della vita, il mezzo di produzione post-fordista su cui si esercita la nuova accumulazione «originaria», rinnovata con obiettivi diversi a ogni ciclo di sussunzione reale capitalistica.
Il libro si articola in due sezioni: Macerie, descrizione stringente della catastrofe del nostro tempo (crisi dell’euro e del sistema europeo, meccanismi del debito, nuove enclosures in forma di prelievi di rendita sul bios), e Ancora una volta, la prima volta, analisi dei movimenti antisistemici e delle lotte di massa che contrastano la catastrofe proponendo idee e pratiche di una democrazia di tutti che è forse il nome attuale del comunismo.
Soffermiamoci su questa seconda parte. «Fare coalizione» è l’insegnamento tratto da Occupy: cioè socializzazione politica e passionale delle soggettività plurali della povertà, che è al tempo stesso potenza produttiva. Il che rovescia in senso rivoluzionario l’operazione neoliberista, che punta a sfruttare un lavoro vivo inseparabile dalla soggettività. L’enfasi sul lavoratore imprenditore di se stesso, l’infatuazione meritocratica (il cui contenuto materiale è la differenziazione salariale verso il basso) e la retorica della formazione permanente ne sono stati inizialmente i referenti ideologici, mentre oggi tale funzione è svolta dal ricatto del debito con tutte le sue conseguenze. Di qui l’individuazione del terreno biopolitico come l’area di contrasto su cui si sviluppano i nuovi movimenti e verso cui confluiscono rivendicazioni salariali e richieste più adeguate al lavoro intermittente e precario quali il reddito di cittadinanza.
Molto interessante a questo proposito è la discussione critica di alcune tendenze interne alla tradizione teorica dell’operaismo italiano. Raparelli prende le distanze tanto dall’insistenza sulla purezza normativa del programma, che traspare da recenti articoli di Toni Negri sul sito Uninomade, quanto dalle ipotesi neospontaneiste di talune componenti libertarie di movimento che si rifanno all’elaborazione filosofica di Giorgio Agamben.
Nel primo caso, a un’analisi corretta del biopotere capitalistico non corrisponde una consapevolezza adeguata delle soggettività che animano il movimento (dai centri sociali agli studenti, ai metalmeccanici), troppo spesso misurate in termini astratti. Nel secondo, la singolarità qualunque si esprime solo nell’evento e nel riot, irriducibili a ogni forma organizzativa. A queste due inclinazioni l’autore oppone, in termini deleuziani alternativi alle avanguardie classiche, «gruppi in stato di adiacenza con i processi sociali», che articolino trasversalmente la molteplicità del desiderio e l’accumulo dei rapporti di forza e delle esperienze organizzative.
IL LIBRO
Francesco Raparelli
Rivolta o barbarie. La democrazia del 99% contro i signori della moneta

prefazione di Paolo Virno
Ponte alle Grazie (2012), pp. 219

Francesco Raparelli - RIVOLTA O BARBARIE La democrazia del 99 per cento contro i signori della moneta - Ponte alle grazie, It, 25 ottobre 2012


Ormai anche i più accesi sostenitori del libero mercato devono fare i conti con un sospetto: che l’odierna crisi del capitalismo, con le enormi contraddizioni sociali che porta con sé, ne mostri limiti irreparabili. Rivolta o barbarie radicalizza quest’interrogativo, smascherando tanto le menzogne prodotte da un trentennio di dittatura neoliberista quanto l’odiosa retorica del sacrificio collettivo propinata da governi tecnici e «grandi coalizioni» europee: e se la crisi globale, si chiede Raparelli, fosse in realtà l’occasione per il capitalismo di compiere un decisivo salto di qualità nello sfruttamento dell’uomo e della natura?
Attraverso una lucida analisi dei dati economici e delle dinamiche sociali, Raparelli mostra il legame tra l’offensiva contro diritti del lavoro, welfare e beni comuni, in corso ovunque in Occidente, e un più vasto progetto di «recinzione» dell’intera società, giungendo a scorgere i tratti, con Marx, di una «nuova accumulazione originaria». Come possiamo scongiurare questa catastrofe? Attraverso una grande «coalizione di poveri», che miri a realizzare, come non teme di ribattezzarlo l’autore, il comunismo del XXI secolo. In altre parole, la democrazia di quel 99 per cento di cui si sono definiti parte il movimento Occupy e la rivolta degli indignados. Consapevoli che, come direbbe Brecht, la rivoluzione è la semplicità difficile a farsi.


Francesco Raparelli è nato a Roma nel 1978. Dottore di ricerca in filosofia, da anni fra gli animatori dei movimenti studenteschi e precari, ha diretto il Centro studi per l’Alternativa comune nato all’interno dell’esperienza politica di Uniti contro la crisi. Fondatore della rete universitaria UniCommon (prima UniRiot), collabora con il mensile alfabeta2e, come blogger, con Huffington Post Italia. Nella primavera del 2012 ha partecipato, come autore e ospite in studio, al programma televisivo di Sabina Guzzanti Un due tre... Stella. Esc, l’atelier autogestito di San Lorenzo a Roma, è la sua «casa».

"Rivolta o barbarie non trascura nulla di importante per la comprensione e il sovvertimento del nostro presente."
dalla Prefazione di Paolo Virno 
"Il libro di Raparelli è pura dinamite. In modo rigoroso descrive la gestione neoliberale della crisi e l’affermazione di una nuova, permanente 'accumulazione originaria'. Con passione, poi, qualifica le vie di fuga, la rivolta come apertura del possibile, le istituzioni del comune come una storia, ancora e di nuovo, da inventare."
Christian Marazzi 
"Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità? Dobbiamo pagare per questo, aggiungendo al debito un quaresimale senso dicolpa? Questo libro insieme agile e profondo rimette le cose a posto rintracciando le cause vere della crisi e mostrando che la soluzione è la resistenza e non i sacrifici."
Augusto Illuminati

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Equality @ 9GAG.com


domenica 23 dicembre 2012

Elettra Stimilli - Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo - Quodlibet, It, 2011




Il debito del vivente
Ascesi e capitalismo

Questo libro si propone di indagare le radici di un fenomeno che investe l’esistenza di ciascuno tanto dal punto di vista individuale che da quello collettivo: l’essere in difetto, in colpa, in debito senza che dipenda da noi, quasi si trattasse di uno stato preliminare che nessun tipo di scelta consapevole è in grado di emendare. Si ha l’impressione che ogni forma di vita si configuri come una risposta a tale condizione, sia quella che si dedica incondizionatamente al godimento e al consumo, sia quella che sceglie i percorsi del rigore ascetico.
Che l’economia (mercati, investitori, forze produttive ecc.) sottragga ai singoli e alle comunità il controllo del proprio destino, deriva probabilmente da una malattia radicale dell’umano le cui origini di ordine materiale non possono che essere al tempo stesso declinate sul piano culturale, ovvero filosofico e religioso. Riconoscere queste origini sotto le varie maschere che hanno indossato nel corso della storia occidentale è la sfida che qui si tenta di affrontare, con la speranza di individuare almeno qualche spunto di guarigione.

Indice: Introduzione. i. Il fine in sé dell’impresa economica. ii.Oikonomía e ascetismo. iii. La costruzione teologica del governo del mondo. iv. Povertà volontaria al mercato. v. Il capitalismo come religione. vi. Per una critica filosofica dell’ascetismo. vii. «Spirito» del capitalismo e forme di vita. Bibliografia. Indice dei nomi.

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Ascolta podcast Radio3Rai con intervista a Elettra Stimilli di Felice Cimatti




La fabbrica dell’uomo indebitato Maurizio Lazzarato - Saggio sulla condizione neoliberista - Derive e Approdi, It, 2012



La fabbrica dell’uomo indebitato

Saggio sulla condizione neoliberista





Giorno dopo giorno siamo sempre più debitori: nei confronti dello Stato, delle assicurazioni private, delle imprese… E per onorare i nostri debiti siamo sempre più costretti a diventare «imprenditori» delle nostre vite, del nostro «capitale umano». Il nostro orizzonte materiale ed esistenziale viene così del tutto stravolto.
Il debito, tanto privato che pubblico, è la chiave di volta attraverso la quale leggere il progetto di un’economia fondata sul pensiero neoliberista.
Rileggendo Marx, Nietzsche, Deleuze e Foucault l’autore dimostra che il debito è anzitutto una costruzione politica e che la relazione creditore/debitore è il rapporto sociale fondamentale delle nostre società.
Perché il debito non è semplicemente un dispositivo economico, è anche, e soprattutto, una tecnica di governo e di controllo delle soggettività individuali e collettive.
Come sfuggire alla condizione neoliberista dell’uomo indebitato? Per Maurizio Lazzarato la risposta non è semplicemente economica. Ciò che dobbiamo rimettere in discussione è proprio «il sistema del debito» oggi alla base della struttura del capitalismo.
Maurizio Lazzarato, filosofo e sociologo, vive e lavora a Parigi. Ha svolto ricerche sul modo di produzione postfordista e il lavoro immateriale. Collabora a varie riviste di filosofia politica. Tra i suoi saggi disponibili in italiano: La politica dell’evento (Rubbettino, 2004), Videofilosofia (manifestolibri, 1996).

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Questo brano costituisce il paragrafo introduttivo del libro di Maurizio LazzaratoLa fabrique de l’homme endettéEssai sur la condition néolibérale, Editions Amsterdam, 2011. La traduzione italiana, per le edizioni DeriveApprodi, è prevista per aprile 2012.

Traduzione dal francese di Andrea Inglese

In Europa la lotta di classe, così come è accaduto in altre regioni del mondo, si manifesta e si concentra oggi intorno al debito. La crisi del debito minaccia anche gli Stati Uniti e il mondo anglosassone, paesi dai quali ha avuto origine non solo l’ultimo crollo finanziario, ma anche e soprattutto il neoliberismo. La relazione creditore-debitore, che definisce il rapporto di potere specifico della finanza, intensifica i meccanismi dello sfruttamento e del dominio in maniera trasversale, perché non fa alcuna distinzione tra lavoratori e disoccupati, consumatori e produttori, attivi e inattivi. Tutti sono dei «debitori», colpevoli e responsabili di fronte al capitale, che si manifesta come il Grande Creditore, il Creditore universale. Una delle questioni politiche maggiori del neoliberismo è ancora, come illustra senza ambiguità la «crisi» attuale, quella della proprietà, poiché la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forza tra proprietari (del capitale) e non proprietari (del capitale). Attraverso il debito pubblico, la società intera è indebitata, cosa che non impedisce, ma anzi esaspera «le diseguaglianze», che è tempo di chiamare «differenze di classe».

Le illusioni politiche ed economiche di questi ultimi quarant’anni cadono le une dopo le altre, rendendo ancora più brutali le politiche neoliberiste. La New Economy, la società dell’informazione, il capitalismo cognitivo, sono tutti solubili nell’economia del debito. Nelle democrazie che hanno «trionfato» del comunismo, pochissime persone (qualche funzionario del Fmi, dell’Europa, della Banca centrale europea e qualche politico) decidono per tutti secondo gli interessi di una minoranza. L’immensa maggioranza degli europei viene espropriata tre volte dall’economia del debito: espropriata di un già debole potere politico concesso dalla democrazia rappresentativa; espropriata di una parte sempre più grande della ricchezza che le lotte passate avevano strappato all’accumulazione capitalista; espropriata soprattutto del futuro, ovvero del tempo, come possibile e dunque come decisione, come scelta.

La successione delle crisi finanziarie ha fatto emergere violentemente una figura soggettiva che era già presente ma che occupa ormai l’insieme dello spazio pubblico: l’«uomo debitore». Le figure soggettive che il neoliberismo aveva promesso («tutti azionari», «tutti proprietari», «tutti imprenditori») si trasformano e ci conducono verso la condizione esistenziale dell’uomo debitore, responsabile e colpevole della sua sorte. È dunque urgente proporre una genealogia e una cartografia della fabbrica economica e soggettiva che lo produce.
Dalla precedente crisi finanziaria che è esplosa con lo bolla internet, il capitalismo ha abbandonato le narrazioni epiche che aveva elaborato attorno ai «personaggi concettuali» dell’imprenditore, dei creativi, del lavoratore cognitivo o del lavoratore indipendente «fiero di essere il proprio padrone» che, perseguendo esclusivamente i loro interessi personali, lavorano per il bene di tutti. L’implicazione soggettiva e il lavoro su di sé, predicati dalla retorica manageriale a partire dagli anni Ottanta, si sono trasformati in un’ingiunzione aprendere su di sé i costi e i rischi della catastrofe economica e finanziaria. La popolazione deve farsi carico di tutto ciò che le imprese e lo Stato assistenziale «esternalizzano» verso la società e, in primo luogo, del debito.
Per i padroni, i media, gli uomini politici e gli esperti, le cause della situazione non sono da cercare né nelle politiche monetarie e fiscali, che aumentano il deficit, operando un transfert massiccio di ricchezza verso i più ricchi e le imprese, né nella successione delle crisi finanziarie, che dopo essere praticamente sparite nel corso dei primi trent’anni del dopoguerra, si ripetono con regolarità estorcendo delle somme di denaro esorbitanti alla popolazione per evitare ciò che chiamano una «crisi sistemica». Le vere cause di queste crisi a ripetizione risiederebbero nelle esigenze eccessive dei governati (specialmente nel Sud dell’Europa) che vogliono vivere come delle «cicale» e nella corruzione delle élite che, in realtà, hanno sempre giocato un ruolo nella divisione internazionale del lavoro e del potere.
Stiamo andando verso un approfondimento della crisi. Il blocco di potere neoliberista non può e non vuole «regolare» gli «eccessi» della finanza, perché il suo programma politico è sempre quello rappresentato dalle scelte e dalle decisioni che ci hanno condotto all’ultima crisi finanziaria. All’opposto, con il ricatto del fallimento dei debiti «sovrani» (che di sovrano hanno ormai solo il nome), vuole portare fino in fondo il programma di cui sogna, fin dagli anni Settanta, l’applicazione integrale: ridurre i salari al livello minimo, tagliare i servizi sociali per mettere il welfare al servizio dei nuovi «assistiti» (le imprese e i ricchi) e privatizzare tutto quello che non è ancora stato venduto ai privati.
Noi manchiamo di strumenti teorici, di concetti, di enunciati, per analizzare non tanto la finanza, ma l’economia del debito che la comprende e la travalica, così come la sua politica e suoi dispositivi di assoggettamento. La crisi che stiamo vivendo ci impone di riscoprire la relazione creditore-debitore elaborata dall’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Pubblicato nel 1972, anticipando teoricamente lo spostamento dell’iniziativa del capitale che si produrrà qualche anno dopo, ci permette, alla luce di una lettura di Nietzsche della Genealogia della morale e della teoria marxiana della moneta, di riattivare due ipotesi. Prima di tutto, l’ipotesi secondo cui il paradigma sociale non è dato dallo scambio (economico e/o simbolico), ma dal credito. A fondamento della relazione sociale non c’è l’uguaglianza (dello scambio), ma l’asimmetria del debito/credito che precede, storicamente e teoricamente, quella della produzione e del lavoro salariato. In secondo luogo, l’ipotesi secondo cui il debito è un rapporto economico indissociabile dalla produzione del soggetto debitore e dalla sua «moralità» . L’economia del debito aggiunge al lavoro nel senso classico del termine un «lavoro su di sé», in modo che economia ed «etica» funzionino congiuntamente. L’economia del debito fa coincidere la produzione economica e la produzione di soggettività. Le categorie classiche della sequenza rivoluzionaria del XIX e XX secolo – lavoro, sociale e politico – sono attraversate dal debito e ampiamente ridefinite da esso. È quindi necessario avventurarsi in territorio nemico e analizzare l’economia del debito e la produzione dell’uomo debitore, per cercare di costruire qualche arma che ci servirà a condurre le lotte che si annunciano. Perché la crisi, lungi dal terminare, rischia di estendersi.