sabato 13 aprile 2013

Stefano Rodotà: Il diritto di avere diritti - Laterza, It, 2013


Un innegabile bisogno di diritti e di diritto si manifesta ovunque, sfida ogni forma di repressione, innerva la stessa politica.
Poteri privati forti e prepotenti sfuggono agli storici controlli degli Stati e ridisegnano il mondo e le vite. Ma sempre più donne e uomini li combattono, denunciano le diseguaglianze, si organizzano su Internet, sfidano regimi politici autoritari. La loro azione è una planetaria, quotidiana dichiarazione di diritti, che si oppone alla pretesa di far regolare tutto solo dal mercato, mette al centro la dignità delle persone, fa emergere i beni comuni e guarda a un futuro dove la tecnoscienza sta costruendo una diversa immagine dell’uomo. È nata una nuova idea di cittadinanza, di un patrimonio di diritti che accompagna la persona in ogni luogo del mondo.
Ecco un brano del nuovo e denso saggio di Stefano Rodotà: Il diritto di avere diritti
È questo il mondo nuovo dei diritti. Un mondo non pacificato, ma ininterrottamente percorso da conflitti e contraddizioni, da negazioni spesso assai più forti dei riconoscimenti. Un mondo troppe volte e troppo spesso doloroso, segnato da sopraffazioni e abbandoni. E così «i diritti parlano», sono lo specchio e la misura dell’ingiustizia, e uno strumento per combatterla. Registrarne minutamente le violazioni non autorizza conclusioni liquidatorie. Solo perché sappiamo che vi è un diritto violato possiamo denunciarne la violazione, svelare l’ipocrisia di chi lo proclama sulla carta e lo nega nei fatti, far coincidere la negazione con l’oppressione, agire perché alle parole corrispondano le realizzazioni. Lo storico appello alla «lotta per il diritto» si declina, oggi, come lotta per «i diritti». E proprio il dilatarsi degli orizzonti spaziali e temporali, insieme alla percezione sempre più diffusa che la persona non può essere separata dai suoi diritti, scardina la cittadinanza come proiezione e custodia di una identità oppositiva, feroce, escludente, che separa e non unisce. La cittadinanza cambia natura, si presenta come l’insieme dei diritti che costituiscono il patrimonio d’ogni persona, quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, e così avvicina e non divide, offrendo anche all’eguaglianza una nuova, più ricca dimensione. È rivelatore questo mutamento di significato del riferimento alla cittadinanza, la cui connotazione «esclusiva» è ormai accompagnata, e spesso beneficamente offuscata, da una sua versione «inclusiva», appunto quella dei diritti di cittadinanza.
Questo mutare dell’idea di cittadinanza rende meno proponibile la tesi che vuole ogni discorso sui diritti solo come la coda lunga di una pretesa egemonica, irrimediabilmente colonialista, di un Occidente che vuole imporre i suoi valori a culture e tradizioni diverse, negandone ragioni e particolarità, continuando a praticare un imperialismo che si tinge con i colori della democrazia e invece legittima l’uso della forza. Oggi dobbiamo guardare assai più in profondo, oltre le stesse ipotesi e ricerche di chi, come Amartya Sen, si è impegnato nel mostrare come esistano radici culturali comuni proprio intorno a valori fondativi dei diritti. Oggi assistiamo a pratiche comuni dei diritti. Le donne e gli uomini dei paesi dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente si mobilitano attraverso le reti sociali, occupano le piazze, si rivoltano proprio in nome di libertà e diritti, scardinano regimi politici oppressivi; lo studente iraniano o il monaco birmano, con il loro telefono cellulare, lanciano nell’universo di Internet le immagini della repressione di libere manifestazioni, anche rischiando feroci punizioni; i dissidenti cinesi, e non loro soltanto, chiedono l’anonimato in rete come garanzia della libertà politica; le donne africane sfidano le frustate in nome del diritto di decidere liberamente come vestirsi; i lavoratori asiatici rifiutano la logica patriarcale e gerarchica dell’organizzazione dell’impresa, rivendicano i diritti sindacali, scioperano; gli abitanti del pianeta Facebook si rivoltano quando si pretende di espropriarli del diritto di controllare i loro dati personali; luoghi in tutto il mondo vengono «occupati» per difendere diritti sociali. E si potrebbe continuare.
Tutti questi soggetti ignorano quello che, alla fine del Settecento, ebbe principio intorno alle due sponde del «Lago Atlantico», non sono succubi d’una qualche «tirannia dei valori», ma interpretano, ciascuno a suo modo, libertà e diritti nel tempo che viviamo. Qui non è all’opera la «ragione occidentale», ma qualcosa di più profondo, che ha le sue radici nella condizione umana. Una condizione storica, però, non una natura alla quale attingere l’essenza dei diritti. Perché, infatti, solo ora tanti dannati della terra li riconoscono, li invocano, li impugnano? Perché sono essi i protagonisti, i rabdomanti di un «diritto trovato per strada»?
Un innegabile bisogno di diritti, e di diritto, si manifesta ovunque, sfida ogni forma di repressione, innerva la stessa politica. E così, con l’azione quotidiana, soggetti diversi mettono in scena una ininterrotta dichiarazione di diritti, che trae la sua forza non da una qualche formalizzazione o da un riconoscimento dall’alto, ma dalla convinzione profonda di donne e uomini che solo così possono trovare riconoscimento e rispetto per la loro dignità e per la stessa loro umanità. Siamo di fronte a una inedita connessione tra l’astrazione dei diritti e la concretezza dei bisogni, che mette all’opera soggetti reali. Certo non i «soggetti storici» della grande trasformazione moderna, la borghesia e la classe operaia, ma una pluralità di soggetti ormai tra loro connessi da reti planetarie. Non un «general intellect », né una indeterminata moltitudine, ma una operosa molteplicità di donne e uomini che trovano, e soprattutto creano, occasioni politiche per non cedere alla passività e alla subordinazione.
Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti, pp. 4-6
Stefano Rodotà è professore emerito di Diritto civile dell’Università di Roma La Sapienza. È tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. È stato presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali e ha presieduto il gruppo europeo per la tutela della privacy. Editorialista di “Repubblica”, autore di numerose opere tradotte anche in diverse lingue
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Recensione di Roberto Esposito: 

Le leggi: perché la libertà dipende dai diritti?

@ La Repubblica 23 novembre 2012


Esce un nuovo saggio di Stefano Rodotà, pubblicato dalla casa editrice Laterza, sull'importanza politica e civile delle norme per tutelare le persone


Che succede al diritto in un mondo senza terra? Orfano di territori circoscritti in cui affondare le proprie radici e di tutela da parte di sovranità nazionali capaci di imporlo? Cosa ne è di esso, quando si interrompono le grandi narrazioni che per secoli ne hanno costituito lo sfondo? Sono queste le domande cruciali che Stefano Rodotà pone in un libro  -  Il diritto di avere diritti, appena edito da Laterza  -  in cui sembrano convergere, componendosi in un affresco di rara suggestione, le grandi questioni che egli ha sollevato in questi anni con coerenza e passione. Prima ancora che un vasto ripensamento del diritto nell'età della globalizzazione, sono in gioco i rapporti tra spazio e tempo, vita e tecnica, potere ed esistenza in una trama discorsiva che intreccia continuità e discontinuità senza assolutizzare né l'una né l'altra. Ciò che conferisce all'analisi forza e respiro è la consapevolezza che anche le più clamorose rotture sono percepibili solo in rapporto ai tempi lunghi entro cui si ritagliano.

L'autore sa bene che passato e presente, origine e contemporaneità, si illuminano a vicenda e che anzi è proprio la loro tensione a rendere visibile l'effettivo movimento delle cose. Rispetto alla radicale dislocazione che rimette in gioco l'intero ius publicum europaeum, in cui quella che è stata chiamata (da Bobbio) "età dei diritti" pare perdere terreno di fronte alle sfide della tecnica e dell'economia, Rodotà rifiuta entrambe le vie più facili  -  sia quella, regressiva, dell'arroccamento nei vecchi confini sovrani, sia quella, utopica, di un'immersione totale nel mare indistinto della rete. Certo la metafora della "navigazione" negli spazi infiniti di Internet, a dispetto delle guardie confinarie dei vecchi Leviatani, è suggestiva. Ma le parole con cui, qualche anno fa, John Perry Barlow apriva la Dichiarazione d'indipendenza del cyberspazio testimoniano come una straordinaria promessa possa rovesciarsi in una sottile minaccia: "Governi del mondo industriale, stanchi giganti di sangue e di acciaio, io vengo dal cyberspazio, la nuova dimora della mente. In nome del futuro, invito voi, che venite dal passato, a lasciarci in pace. Non siete benvenuti tra noi. Non avete sovranità suoi luoghi dove c'incontriamo". Contro gli occhiuti fantasmi del passato e le fughe in avanti in un futuro per nulla rassicurante, Rodotà coniuga al meglio attenzione al nuovo e consapevolezza delle sue ambivalenze, realismo e speranza.

La sua tesi centrale è che solo l'elaborazione di un rinnovato diritto possa riempire le faglie aperte dalle scosse telluriche in corso, ricostituendo quell'equilibrio tra politica, economia e tecnica che le dinamiche globali hanno forzato fino a sgretolarlo. Alle fine delle grandi narrazioni, l'unica che appare resistere  -  capace di rassicurare gli individui e mobilitare i popoli  -  è soltanto il progetto di estendere ad ogni essere umano i diritti faticosamente conquistati in una lotta che ha attraversato l'intera storia moderna. E ciò nonostante i limiti, le contraddizioni, le disillusioni che di volta in volta hanno dato una sensazione di insufficienza, di arretramento e perfino di tradimento delle conquiste precedenti. Il ragionamento di Rodotà si sviluppa per passaggi consecutivi che, nel momento stesso in cui profilano con nettezza la sua posizione, tengono però già conto, incorporandole, delle possibili obiezioni. Certo, il diritto non è in grado di coprire l'intera gamma dei nostri bisogni  -  e del resto una giuridicizzazione integrale dell'esistenza assomiglierebbe più a una gabbia che a un libero spazio di convivenza. Eppure solo esso è in grado di contenere la pressione sempre più invadente dell'economia e della tecnica. La prima attraverso uno scioglimento del mercato da qualsiasi vincolo sociale che rischia di spezzare il nesso moderno tra dignità e lavoro. La seconda attraverso un controllo pervasivo della vita da parte di apparati solo apparentemente neutrali, in realtà custoditi in poche mani, come accade per Facebook e Google. Che sarebbe di un mondo affidato a una lex mercatoria senza limiti o di una vita interamente esposta all'occhio di invisibili terminali elettronici che ne spiano ogni minimo movimento?

Naturalmente, perché il diritto possa esercitare una funzione non solo legislativa, ma compiutamente giurisprudenziale, deve passare dal piano di una legge imposta dall'alto a quello, immanente, di una norma che risponda ai bisogni materiali delle persone  -  proteggendo i loro diritti civili, politici, sociali e adesso anche informatici. Ma perché ciò assuma senso è necessario strappare la vecchia maschera della persona giuridica, incarnandola nel corpo dell'individuo vivente. Quanto ciò sia complicato è ben noto a chi conosce il ruolo discriminante, ed anche escludente, che il dispositivo romano della persona ha esercitato per secoli nei confronti di coloro che sono stati dichiarati di volta in volta non persone, persone parziali, semipersone o anche anti-persone. Ma l'uso della categoria assunto dalle Costituzioni e dalle Dichiarazioni postbelliche sembra voler aprire una nuova storia, che ha portato alla Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza nel 2000 ed entrata in vigore col Trattato di Lisbona del 2009. A questo insieme di processi sociali, giuridici, semantici  -  che pongono al centro del diritto il corpo di donne e uomini liberi ormai anche dal vincolo di cittadinanza, perché cittadini del mondo  -  Rodotà dà il nome di costituzionalizzazione, collocandolo al cuore del libro. Proprio su di essa io credo si possa, e si debba, lavorare, spingendola sempre più avanti nella direzione di una connessione profonda tra diritto e vita. Che, naturalmente, non può fare a meno della politica, come ben riconosce l'autore. A tale proposito avanzerei due ulteriori osservazioni. La prima riguarda appunto il rapporto tra diritto e politica. Rodotà vede nel primo soprattutto una salvaguardia per la seconda, il cerchio di garanzia all'interno del quale il politico può svilupparsi legittimamente. Bene.

Ma se quella sui diritti, come egli scrive, è una lotta  -  lotta per e sui diritti, il diritto non è a sua volta interno alla dinamica politica? Voglio dire che la stessa opzione per l'universalismo dei diritti passa necessariamente per un conflitto con coloro che lo negano  -  e dunque non può non assumere un profilo di per sé politico. Il "politico", insomma, non è un ambito come gli altri, che il diritto possa limitarsi a garantire dall'esterno, ma è il grado di intensità della lotta che li percorre tutti, compreso quello del diritto. La seconda osservazione riguarda l'Unione Europea, cui Rodotà dedica la massima attenzione. Egli scrive che se l'Europa saprà pienamente riconoscersi nella Carta "troverà pure una via d'uscita da una sua minorità, dal suo continuare ad essere "nano politico"". Ho il timore che, per ridare un profilo politico all'Europa, ciò possa non bastare  -  se insieme non si mette in moto un processo costituente che restituisca, almeno nella fase di avvio, piena sovranità politica ai popoli europei in una forma non del tutto coincidente con una pura giuridicizzazione. C'è sempre un momento iniziale in cui il politico oltrepassa il giuridico o almeno lo forza in una direzione imprevista. Ovviamente domande del genere, che rivolgo all'autore, nascono dall'impianto stesso di una ricerca che per ricchezza, competenza e intelligenza, ha pochi uguali nel dibattuto giuridico contemporaneo.
© Riproduzione riservata (23 novembre 2012Read more on Repubblica website


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