giovedì 8 ottobre 2015

1.7. Il concetto: la ripetizione come potenza e lo stile come movimento - Parte VII - Tratto da «Moneta, rivoluzione e filosofia dell'avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Guattari, Klossowski» (Rizosfera/Obsolete Capitalism Free Press, 2016)

Il concetto: la ripetizione come potenza e lo stile come movimento

1.7. - Parte VII -
Tratto da «Moneta, rivoluzione e filosofia dell'avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Guattari, Klossowski»
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Valutiamo ora, nell’Anti-Edipo, il metodo compositivo che permette al concetto deleuziano di essere localizzabile in una mappa «politica» del pensiero e di vedersi attribuire un movimento e un tratto dalle qualità cinematografiche: un raccordo pieno in cui all’immagine si sostituisce l’«immagine del pensiero» e al montaggio in studio subentra il montaggio filosofico. In un’intervista del settembre 1988, Deleuze afferma che concepisce “la filosofia come una logica delle molteplicità (...). Creare concetti significa costruire una regione del piano, aggiungere una regione alle precedenti, esplorare una nuova regione, colmare la mancanza. Il concetto è un composto, un consolidamento di linee, di curve. Se i concetti devono costantemente rinnovarsi, è appunto perché il piano di immanenza si costruisce per regioni, ha una costruzione locale, poco alla volta. Per questa ragione i concetti agiscono a raffiche: in Mille piani, ogni piano dovrebbe essere una di queste raffiche. Ma ciò non vuol dire che non siano oggetto di riprese e di sistematicità. Viceversa, c’è una ripetizione come potenza del concetto: è il raccordo tra una regione e l’altra. E tale raccordo è una operazione indispensabile, perpetua, il mondo come patchwork. La vostra doppia impressione [degli intervistatori: Raymond Bellour e François Ewald] è quindi esatta, c’è infatti un solo piano di immanenza ma concetti sempre locali. E’ il costruttivismo che per me sostituisce la riflessione” (PP, 195-96).
Come è noto, Deleuze non ha mai cessato per tutta la vita di affermare l’instancabile «dovere» della filosofia: inventare concetti. “La filosofia consiste sempre nell’inventare i concetti” (PP,181). Non solo, ma se la filosofia possiede un’attualità, uno «spazio» dal quale può far udire la propria voce, ebbene quel luogo privilegiato del pensiero è la creazione del concetto, il «taglio» effettuato per scolpire il concetto nel paradosso.
La filosofia è per sua natura creatrice o anche rivoluzionaria, in quanto non smette di creare nuovi concetti. La sola condizione è che essi abbiano una necessità, come pure un’estraneità, cosa che hanno nella misura in cui rispondono a problemi reali. Il concetto è ciò che impedisce al pensiero di essere una semplice opinione, un parere, una discussione, una chiacchiera. Ogni concetto è un paradosso, necessariamente” (PP, 181).

Invenzione, ripetizione, potenza, costruzione, esplorazione, consolidamento, creazione, taglio: questi sono i fondamenti imprescindibili per plasmare il concetto come fosse un’opera d’arte. In breve: il movimento plastico della produzione del concetto è lo «stile» del pensiero. Potenza ed eleganza sono due elementi che mai sono mancati nel concetto scolpito dalla filosofia di Deleuze. Questa dimensione a un tempo «eroica» e «artigianale» della riflessione deleuziana, senza cedere su nulla, lo accomuna agli altri due grandi pensatori materialisti, Spinoza e Nietzsche. Sempre dall’intervista del settembre 1988 per «Magazine littéraire», Deleuze afferma: “I grandi filosofi sono anche dei grandi stilisti. Lo stile in filosofia è il movimento del concetto. Certo questo non esiste al di là delle frasi, ma le frasi non hanno altro scopo che di dargli vita, una vita indipendente. Lo stile è una messa in variazione della lingua, una modulazione, una tensione di tutto il linguaggio verso un fuori. In filosofia è come in un romanzo; ci si deve chiedere «che cosa sta per accadere?», «che cos’è successo?». Solo che i personaggi sono dei concetti, e le ambientazioni, i paesaggi sono degli spazi-tempo. Si scrive sempre per dare la vita, per liberare la vita là dove è imprigionata, per tracciare delle linee di fuga. Per questo occorre che il linguaggio non sia un sistema omogeneo, ma uno squilibrio, sempre eterogeneo: lo stile vi scava delle differenze di potenziali tra cui può passare qualcosa, accadere qualcosa, può balenare un lampo che scaturisce dal linguaggio stesso, e farci vedere e pensare quello che restava nell’ombra attorno alle parole, delle entità di cui si sospettava appena l’esistenza” (PP, 187). Questo frammento è illuminante; spiega perché certi passaggi come quello che ci apprestiamo a commentare, sembrano particolarmente ostici e volutamente obliqui. Eppure Deleuze pone la necessità prioritaria dello stile, anche aggressivo, anche squilibrato, purché «passi qualcosa», una scossa d’energia, un fiotto di pensiero, un balenio di lampo. Un esempio «lampante» di questo costruttivismo lo abbiamo nel celebre paragrafo della Macchina capitalistica civilizzata, grazie ad un riuscito montaggio cinematografico à la David Lynch: un mostruoso strisciante. Il testo del paragrafo parte con una celebrazione delle assiomatiche marxiane, poi s’incrina sottilmente pagina dopo pagina, e contraddice in maniera sempre più stridente i dogmi marxisti riguardanti l’analisi del capitalismo «civilizzato», per terminare con il celebre passaggio accelerazionista dove si spalanca l’abisso cospirazionista nietzscheano che inghiotte l’illusione di una via d’uscita marxista al «livellamento» della società contemporanea. Un coup de théâtre espressionista, dalle tinte fosche: enigmatico, illusorio e agghiacciante allo stesso tempo. I forti dell’avvenire possono attendere, come tutti gli eterni.

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