Pubblichiamo la prima parte di un intervento di Lapo Berti sulle dinamiche di lungo periodo della crisi italiana, cui seguirà una discussione delle possibili vie d’uscita, con un’analisi dei punti di forza su cui fare leva. L’articolo è tratto da www.lib21.org
Parte prima
Se è vero che le malattie afferrano non solo il corpo dell’individuo, ma possono attaccare anche il corpo di un’intera società, l’Italia è certamente malata. Gravemente malata, perché sono più d’uno i germi che l’hanno infettata. Alcune patologie fanno parte di epidemie che hanno contagiato il mondo intero, come la crisi finanziaria e quella economica che ne è derivata, ma anche la caduta della fiducia in un mondo in cui l’aggressività con cui si sono imposti e manifestati i processi di globalizzazione non ha certo aiutato a rendere possibile la convivenza pacifica fra miliardi di sconosciuti, che è la sostanza di quella cosa che chiamiamo civiltà. Oppure anche la crescente sfiducia in un modello di economia e di società che sembra aver ormai esaurito la sua capacità propulsiva ed essere avviato a un lento ma inesorabile tramonto punteggiato di effetti negativi che non si è più disposti a sopportare. Altre patologie, invece, sono la manifestazione di mali antichi che affliggono il nostro paese da secoli e che hanno assunto forme caratteristiche e persistenti con la formazione dello stato unitario di cui abbiamo appena celebrato il centocinquantenario.
Risanare il paese, farlo uscire dal declino, comporta che si affrontino con decisione e con idee innovative tutte queste patologie, perché solo in un nuovo quadro economico e sociale mondiale l’Italia può ritrovare quella spinta propulsiva che gli sta sfuggendo. Qui, tuttavia, ci occuperemo solo delle seconde che, per essere, diciamo così, endogene, appaiono essere più alla portata dei rimedi che noi stessi siamo in grado di applicare.
La prima patologia, cui forse va ascritta la responsabilità di aver favorito, se non generato, tutte le altre è quella insita nel modello di capitalismo che si è venuto affermando in Italia. Un capitalismo senza capitale, che, per crescere, ha dovuto affidarsi, da un lato, alla dimensione familiare, cercando di galleggiare, di “arrangiarsi”, nella dimensione della piccola impresa e, dall’altro, allo Stato quale unico ente in grado di raccogliere i fondi necessari alle grandi intraprese industriali. Con poco capitale disponibile, è toccato alle banche il compito di raccoglierlo, spesso con il sostegno diretto o indiretto dello stato, e distribuirlo alle imprese. La borsa è rimasta a guardare, servendo solo a illudere i poveri, piccoli risparmiatori che gli hanno consegnato, spesso perdendoli, i loro risparmi.
E’ così che è nato e si è consolidato quel formidabile intreccio fra la politica e i partiti, che governano i flussi del denaro pubblico e li assegnano agli operatori economici, generalmente in cambio di mazzette e ogni altro genere di favori, compreso l’impiego di amici e parenti raccomandati, le imprese che alla politica hanno chiesto, oltre a finanziamenti più o meno ingiustificati, protezioni normative nei confronti della concorrenza, in modo da potersi spartire i mercati alle spalle dei consumatori, che da sempre pagano, non a caso, prezzi più elevati che nel resto d’Europa, e, infine, le banche che hanno costituito sempre, seppure sotto forme diverse, l’architrave di questo sistema spartitorio. Un sistema perennemente dominato dalla collusione fra gruppi di potere economico e politico che, si sono riprodotti immutati, decennio dopo decennio, talora tramandando le posizioni di potere e di rendita letteralmente di padre in figlio. In questo sistema, c’è stato largo spazio per la formazione digruppi parassitari, sia ai livelli più bassi (settori del pubblico impiego, pensionati e minorati di fantasia, ecc.) sia a quelli più alti della società (la supercasta). E’ bene sottolineare che questo sistema, per mantenersi e riprodursi, ha dovuto rinchiudersi su se stesso, lasciando fuori, il più possibile, la competizione, il riconoscimento del merito, il ricambio dei gruppi dirigenti.
Tutto questo ha portato alla seconda, grave patologia della società italiana: una politica inquinata da una sistema di relazioni “mafiose” (clientelismo, nepotismo, appartenenze partitiche, collusione, ecc.) e, quindi, una democrazia debole e incapace rendere i cittadini davvero protagonisti. Lo Stato debole, facile preda dei gruppi di potere che si erano impossessati delle leve del governo e che, di fatto, non le hanno mai mollate. Uno Stato latitante o addirittura assente in aree importanti del paese, che ha alimentato nei cittadini la sfiducia nella possibilità che si affermasse un governo delle regole, che riconoscesse a tutti uguali diritti, oltre uguali doveri. Gli uni e gli altri, in Italia, non sono mai stati ugualmente ripartiti. Anzi.
Di fronte al dilagare delle manifestazioni di questa patologia, la società si è dapprima scissa in due tronconi: da una parte quelli che facevano parte di questo sistema o che si adoperavano per entrarvi attraverso la pratica della raccomandazione o dello scambio di favori, a tutti i livelli, dall’altra quelli che non ne facevano o non ne volevano fare parte. Poi la società ha cominciato lentamente a disgregarsi. E’ venuta meno la fiducia, che è l’unico collante sociale che consente di perseguire progetti collettivi e di condividere i destini di una comunità. Il“familismo amorale”, di cui già si parlava negli anni cinquanta come di un fattore che minava alla base la possibilità di creare una dimensione collettiva e partecipata della convivenza, si è ribaltato in un “individualismo irresponsabile”, in cui ognuno ha cominciato a pretendere solo per sé, fino all’implosione nella sindrome di Nimby.
Tutto ciò, a sua volta, ha avuto conseguenze sul rapporto fra il sistema sociale e la politica; ed è questa la terza, grave, e forse più insidiosa patologia. La disgregazione sociale si è accompagnata a una caduta verticale della passione partecipativa, della tensione morale verso il bene collettivo e il rispetto della comunità. I partiti si sono progressivamente svuotati della loro vita collettiva, dando vita a un sistema del tutto avulso dalle dinamiche sociali reali, in cui abita una “casta” sempre più autoreferenziale e auto-nominata che usa di questa separatezza per fini di potere e di arricchimento anche personali. Fra i due poli della società, da un lato, e della politica, dall’altro, si è innescata una spirale negativa che non si è ancora arrestata, anche se vi sono segni sporadici di reazione, rendendo la società sempre più brutta e inospitale e la politica sempre più arrogante e lazzarona. Tutte le forme di mediazione politica e sociale che hanno a lungo garantito la sopravvivenza di questo sistema, pur nella sua perversità, sono saltate. La politica è finalmente, drammaticamente nuda.
Questa è l’Italia in cui ci troviamo a vivere, dopo decenni di abbandono e di desertificazione degli spazi pubblici e d’incanaglimento degli spazi privati. Una società sbriciolata nei suoi nessi di solidarietà, impaurita, ossessionata dall’incertezza e dall’insicurezza. Da dove si può ricominciare? Quali sono i sentimenti, le pulsioni, su cui si può far leva per provare a far nascere un nuovo orizzonte, a prospettare un nuovo percorso, e, soprattutto, per indurre le persone a crederci, per tornare a produrre quel fluido essenziale per la vita di ogni società che è la fiducia?
Non è facile, soprattutto perché le patologie che abbiamo ricordato hanno radici antiche, sono sedimentate nel DNA della nostra società. Gli ultimi, sfortunati, decenni della nostra storia le hanno semplicemente portate allo scoperto, esaltate, togliendo quella coltre di mediazioni, di autoinganno e anche di ipocrisia, che a lungo le aveva nascoste agli occhi dei più. Vengono in mente le parole di un grande poeta, Johann Wolfgang Goethe, riproposte di recente da Sabino Cassese:
“Questa è l’Italia che lasciai.
Sempre polverose le strade,
sempre spennato lo straniero, qualunque cosa faccia.
Cerchi invano la probità tedesca;
qui c’è vita e animazione, non ordine e disciplina;
ciascuno pensa solo a sé e diffida degli altri,
e i reggitori dello Stato, anche loro, pensano a sé soli”
(Venetianische Epigramme, n. 4)
Era la primavera del 1790, a Venezia. Potrebbero essere scritte oggi e i due secoli e passa trascorsi da allora potrebbero stare lì a dirci che questa è la nostra storia e che, se non ci piace, dobbiamo cambiare storia, cambiare noi stessi, cambiare il modo in cui la nostra società funziona e si rapporta allo stato. Dobbiamo guardare dentro noi stessi, porre mano al nostro troppo esiguo bagaglio di sentimenti civici, all’individualismo cinico ed egoistico che è in noi, alla paura di competere, di essere noi stessi.
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