Matteo Pasquinelli
Il campo del valore e la bestia collettiva
Il campo del valore e la bestia collettiva
UniNomade summer school, 6-9 settembre 2012
Passignano sul Trasimeno, Umbria
1. La concezione bicefala del valore in Marx.
In molti oggi sostengono che in Marx (1867) si trovi una concezione bicefala del valore. Nel suo interessante libro More Heat than Light Mirowski (1989), ad esempio, mostra come Marx abbia attinto a due modelli in voga nella scienza del suo tempo per descrivere l’arcano della genesi del valore. In Marx comparirebbero per così dire una misura termodinamica e una gravitazionale del valore, una inspirata a Carnot e una a Newton, una metrica e una topologica, una basata sui cavalli vapore e una sul campo di forze, una basata sul tempo di lavoro e una sul lavoro socialmente necessario. Chiaro che nessuno dei due modelli si cuce perfettamente addosso al lavoro vivo: sulla questione ancora oggi ci si dibatte come in una camicia di forza. Proprio in questo quadro la rottura rappresentata dalla biopolitica foucaltiana è per Deleuze (1986) proprio l'introduzione del diagramma del potere come campo di forze, come macchina sociale astratta che va a sostituire il modello delle vecchie macchine termodinamiche. Anche se questa ambivalenza del testo marxiano è vera, e ogni lettura del palinsesto scientifico sempre affascinante, non è dalla prospettiva delle scienze dure che si dovrebbe cominciare a leggere Marx. Uno degli errori di Mirowski (e del suo sodale Georgescu-Roegen) sembra essere quello di credere che sia sempre un modello scientifico a influenzare nascostamente la teoria economica. In generale, dal punto di vista del metodo politico, non si legge Marx per avere una grammatica con cui descrivere a posteriori e dogmaticamente le lotte sociali (come fa la corrente detta ‘Hysterical Materialism’), ma lo si studia per vedere come i rapporti di produzione e il conflitto abbiano dato forma ai suoi concetti dall’interno e come nuove forme di lotta possano essere anticipate.
2. La tradizione occidentale della misurabilità dell’essere.
Il problema della sostanza del valore è anche, filosoficamente e politicamente, il problema della sua misura. Si potrebbe dire che matematica ed economia politica esistano proprio perché c’è sempre qualcosa che sfugge alla misurabilità. L’economia politica non è che il tentativo di addomesticare l’eccedenza, di scendere a patti con il surplus e catturarlo. Il capitale cerca di controllare la sostanza del lavoro vivo applicando in epoche diverse dispositivi diversi di misurazione. Sono queste le macchine della seconda sintesi di Deleuze e Guattari (1972), le cosiddette macchine di registrazione che tagliano i flussi delle macchine di produzione, e che in ogni civiltà codificano e iscrivono sul corpo cifre diverse per estrarre plusvalore. Anche Marx stesso si dice appartenga alla tradizione molto occidentale e aristotelica della misurabilità dell’essere nel tentativo di calcolare scientificamente il plusvalore. Tuttavia le formule di Marx non sono formule dell’equilibrio economico, ma sono formule che al contrario, in un rovesciamento della logica hegeliana, mostrano l'asimmetria intrinseca del capitale e cercano di individuarne la crisi interna, la dismisura, come emerge nella famosa formula della caduta tendenziale del saggio di profitto (Marx 1894). Rispetto alla marxiana crisi tutta oggettiva del capitale, l’operaismo interviene per avanzare una crisi soggettiva del capitale. L’operaismo, non serve ricordarlo qui, rovescia la formula non tanto dal punto di vista matematico, ma dal punto di vista materialista delle nuove soggettività del lavoro. È l’eccedenza dei corpi, la dismisura del lavoro vivo a mandare la rivoluzione industriale out of joint, a soqquadro, a produrre un ‘trauma’ storico di portata globale, a spingere l'evoluzione del capitale verso il postfordismo e il capitalismo finanziario. Quello che il capitale tenta di misurare, controllare e catturare è appunto questa potenza collettiva.
3. Statuto dell’economia politica secondo cinque scuole contemporanee.
L’eccedenza del lavoro vivo non ha alcuna verginità metafisica, ma al contrario la si rintraccia sempre invischiata nel reale e alle prese con il 'lavoro sporco' della storia. Riguardo alla questione della misura e della dismisura, con fare canzonatorio, potremmo suddividere le interpretazioni odierne dello statuto dell’economia politica in cinque gruppi: puristi, cronometristi, autonomisti, scambisti, accelerazionisti. I puristi sono coloro che non riconoscono il bisogno alcuno di studiare l’economia e i concetti marxiani per paura di peccare di economicismo (Badiou) o che riconducono le discipline economiche ad una matrice teologica dalla quale non sembra esserci scampo (Agamben). In una ipotetica ‘destra’ potremmo annoverare i cronometristi, compagni fedeli ad una supposta intrinseca razionalità dell'economia, che calcolano il plusvalore orologio alla mano e solo dentro il recinto della fabbrica, e così pure i diritti e il salario degli operai (per lo più marxisti e sindacalisti 'ortodossi'). Gli autonomisti riconoscono invece l’eccedenza del lavoro vivo al di là di ogni misura e razionalità economicista, l’intera metropoli come spazio produttivo e quindi l'auto-determinazione delle soggettività prima di ogni diritto codificato (ovvero l’operaismo in genere). Gli scambisti sono coloro che sostengono ora più che mai una svolta monetarista nel marxismo, l’egemonia della circolazione di moneta sulla produzione e la riduzione del valore a prezzo (in parte Harvey, Bellofiore, cartalisti e circuitisti, ecc.). In una ipotetica ‘sinistra’, infine, troviamo gli accelerazionisti di scuola postmoderna, che come nelle sette millenariste d’un tempo attendono la fine del capitalismo per ipertrofica esplosione (tra questi gli stessi Deleuze e Guattari in alcuni passaggi, il catastrofismo di Baudrillard, Virilio e la sua dromologia, alcuni autori della recente rivista Collapse, ecc.). In questo quadretto di famiglia, che semplifica un dibattito di mezzo secolo, l’operaismo sembra porsi in una posizione interlocutoria, di buon senso (quasi democristiana!).
4. La legge del valore attraverso l’operaismo.
L’operaismo non è mai partito dalla filologia marxiana, benché utilissima, ma dal potere normativo dell’antagonismo, capace di plasmare dall’interno le leggi del valore e trasformare quindi gradualmente anche le formule dell'economia politica. In altre parole, se si studia il concetto di valore, non è per lasciarlo librare in aria come un a priori, come astrazione a-storica, ma per agganciarlo e concatenarlo sempre alla sostanza, alla carne, al lavoro. Anche qui è importante fare un piccolo excursus. Vercellone (2012) nel suo saggio “La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo” ripercorre la storia della critica della legge del valore-lavoro a partire da Marx oltre Marx di Negri (1979) fino al dibattito degli anni novanta sulle riviste Futur Antérieur e Multitudes (Negri 1992 e 1997). Nei suoi lavori Vercellone ha esteso questa genealogia contestualizzando la crisi del legge del valore-lavoro all'interno della crisi del capitalismo cognitivo. In Marazzi (1977) invece ritroviamo la storia parallela tra la crisi della legge del valore-lavoro, la fine della convertibilità del dollaro con l’oro e l’ascesa del capitalismo finanziario, ovvero come l’idea che la moneta sia usata dal capitale per riappropriarsi del terreno di lotta dell’antagonismo. Più recentemente Fumagalli e Morini (2009) hanno tentato una teoria del valore-vita all’interno del paradigma del biocapitalismo. Mentre Lazzarato (2011) nel suo ultimo libro ha cercato invece un Marx antecedente allo teoria del valore-lavoro per porre il debito come forma primordiale del valore, ma rischiando di espellere in questo modo il cuore stesso del sistema marxiano, ovvero la teoria del plusvalore e dello sfruttamento. Per semplificare questa lunga ed articolata gestazione, si farà riferimento a Commonwealth di Hardt e Negri (2009) dove si spiega in modo chiaro la concezione bicefala del valore in Marx — ma soprattuto dove si spiega come sia necessario tornare all’idea del capitale come relazione sociale e accumulazione di relazioni sociali (e non già come semplice misura del tempo di lavoro) per capire le forme di produzione e valorizzazione del biocapitalismo odierno.
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In molti oggi sostengono che in Marx (1867) si trovi una concezione bicefala del valore. Nel suo interessante libro More Heat than Light Mirowski (1989), ad esempio, mostra come Marx abbia attinto a due modelli in voga nella scienza del suo tempo per descrivere l’arcano della genesi del valore. In Marx comparirebbero per così dire una misura termodinamica e una gravitazionale del valore, una inspirata a Carnot e una a Newton, una metrica e una topologica, una basata sui cavalli vapore e una sul campo di forze, una basata sul tempo di lavoro e una sul lavoro socialmente necessario. Chiaro che nessuno dei due modelli si cuce perfettamente addosso al lavoro vivo: sulla questione ancora oggi ci si dibatte come in una camicia di forza. Proprio in questo quadro la rottura rappresentata dalla biopolitica foucaltiana è per Deleuze (1986) proprio l'introduzione del diagramma del potere come campo di forze, come macchina sociale astratta che va a sostituire il modello delle vecchie macchine termodinamiche. Anche se questa ambivalenza del testo marxiano è vera, e ogni lettura del palinsesto scientifico sempre affascinante, non è dalla prospettiva delle scienze dure che si dovrebbe cominciare a leggere Marx. Uno degli errori di Mirowski (e del suo sodale Georgescu-Roegen) sembra essere quello di credere che sia sempre un modello scientifico a influenzare nascostamente la teoria economica. In generale, dal punto di vista del metodo politico, non si legge Marx per avere una grammatica con cui descrivere a posteriori e dogmaticamente le lotte sociali (come fa la corrente detta ‘Hysterical Materialism’), ma lo si studia per vedere come i rapporti di produzione e il conflitto abbiano dato forma ai suoi concetti dall’interno e come nuove forme di lotta possano essere anticipate.
2. La tradizione occidentale della misurabilità dell’essere.
Il problema della sostanza del valore è anche, filosoficamente e politicamente, il problema della sua misura. Si potrebbe dire che matematica ed economia politica esistano proprio perché c’è sempre qualcosa che sfugge alla misurabilità. L’economia politica non è che il tentativo di addomesticare l’eccedenza, di scendere a patti con il surplus e catturarlo. Il capitale cerca di controllare la sostanza del lavoro vivo applicando in epoche diverse dispositivi diversi di misurazione. Sono queste le macchine della seconda sintesi di Deleuze e Guattari (1972), le cosiddette macchine di registrazione che tagliano i flussi delle macchine di produzione, e che in ogni civiltà codificano e iscrivono sul corpo cifre diverse per estrarre plusvalore. Anche Marx stesso si dice appartenga alla tradizione molto occidentale e aristotelica della misurabilità dell’essere nel tentativo di calcolare scientificamente il plusvalore. Tuttavia le formule di Marx non sono formule dell’equilibrio economico, ma sono formule che al contrario, in un rovesciamento della logica hegeliana, mostrano l'asimmetria intrinseca del capitale e cercano di individuarne la crisi interna, la dismisura, come emerge nella famosa formula della caduta tendenziale del saggio di profitto (Marx 1894). Rispetto alla marxiana crisi tutta oggettiva del capitale, l’operaismo interviene per avanzare una crisi soggettiva del capitale. L’operaismo, non serve ricordarlo qui, rovescia la formula non tanto dal punto di vista matematico, ma dal punto di vista materialista delle nuove soggettività del lavoro. È l’eccedenza dei corpi, la dismisura del lavoro vivo a mandare la rivoluzione industriale out of joint, a soqquadro, a produrre un ‘trauma’ storico di portata globale, a spingere l'evoluzione del capitale verso il postfordismo e il capitalismo finanziario. Quello che il capitale tenta di misurare, controllare e catturare è appunto questa potenza collettiva.
3. Statuto dell’economia politica secondo cinque scuole contemporanee.
L’eccedenza del lavoro vivo non ha alcuna verginità metafisica, ma al contrario la si rintraccia sempre invischiata nel reale e alle prese con il 'lavoro sporco' della storia. Riguardo alla questione della misura e della dismisura, con fare canzonatorio, potremmo suddividere le interpretazioni odierne dello statuto dell’economia politica in cinque gruppi: puristi, cronometristi, autonomisti, scambisti, accelerazionisti. I puristi sono coloro che non riconoscono il bisogno alcuno di studiare l’economia e i concetti marxiani per paura di peccare di economicismo (Badiou) o che riconducono le discipline economiche ad una matrice teologica dalla quale non sembra esserci scampo (Agamben). In una ipotetica ‘destra’ potremmo annoverare i cronometristi, compagni fedeli ad una supposta intrinseca razionalità dell'economia, che calcolano il plusvalore orologio alla mano e solo dentro il recinto della fabbrica, e così pure i diritti e il salario degli operai (per lo più marxisti e sindacalisti 'ortodossi'). Gli autonomisti riconoscono invece l’eccedenza del lavoro vivo al di là di ogni misura e razionalità economicista, l’intera metropoli come spazio produttivo e quindi l'auto-determinazione delle soggettività prima di ogni diritto codificato (ovvero l’operaismo in genere). Gli scambisti sono coloro che sostengono ora più che mai una svolta monetarista nel marxismo, l’egemonia della circolazione di moneta sulla produzione e la riduzione del valore a prezzo (in parte Harvey, Bellofiore, cartalisti e circuitisti, ecc.). In una ipotetica ‘sinistra’, infine, troviamo gli accelerazionisti di scuola postmoderna, che come nelle sette millenariste d’un tempo attendono la fine del capitalismo per ipertrofica esplosione (tra questi gli stessi Deleuze e Guattari in alcuni passaggi, il catastrofismo di Baudrillard, Virilio e la sua dromologia, alcuni autori della recente rivista Collapse, ecc.). In questo quadretto di famiglia, che semplifica un dibattito di mezzo secolo, l’operaismo sembra porsi in una posizione interlocutoria, di buon senso (quasi democristiana!).
4. La legge del valore attraverso l’operaismo.
L’operaismo non è mai partito dalla filologia marxiana, benché utilissima, ma dal potere normativo dell’antagonismo, capace di plasmare dall’interno le leggi del valore e trasformare quindi gradualmente anche le formule dell'economia politica. In altre parole, se si studia il concetto di valore, non è per lasciarlo librare in aria come un a priori, come astrazione a-storica, ma per agganciarlo e concatenarlo sempre alla sostanza, alla carne, al lavoro. Anche qui è importante fare un piccolo excursus. Vercellone (2012) nel suo saggio “La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo” ripercorre la storia della critica della legge del valore-lavoro a partire da Marx oltre Marx di Negri (1979) fino al dibattito degli anni novanta sulle riviste Futur Antérieur e Multitudes (Negri 1992 e 1997). Nei suoi lavori Vercellone ha esteso questa genealogia contestualizzando la crisi del legge del valore-lavoro all'interno della crisi del capitalismo cognitivo. In Marazzi (1977) invece ritroviamo la storia parallela tra la crisi della legge del valore-lavoro, la fine della convertibilità del dollaro con l’oro e l’ascesa del capitalismo finanziario, ovvero come l’idea che la moneta sia usata dal capitale per riappropriarsi del terreno di lotta dell’antagonismo. Più recentemente Fumagalli e Morini (2009) hanno tentato una teoria del valore-vita all’interno del paradigma del biocapitalismo. Mentre Lazzarato (2011) nel suo ultimo libro ha cercato invece un Marx antecedente allo teoria del valore-lavoro per porre il debito come forma primordiale del valore, ma rischiando di espellere in questo modo il cuore stesso del sistema marxiano, ovvero la teoria del plusvalore e dello sfruttamento. Per semplificare questa lunga ed articolata gestazione, si farà riferimento a Commonwealth di Hardt e Negri (2009) dove si spiega in modo chiaro la concezione bicefala del valore in Marx — ma soprattuto dove si spiega come sia necessario tornare all’idea del capitale come relazione sociale e accumulazione di relazioni sociali (e non già come semplice misura del tempo di lavoro) per capire le forme di produzione e valorizzazione del biocapitalismo odierno.
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