giovedì 25 giugno 2015

INTERVISTA A FRANCO MOTTA SU «ELOGIO DELLE MINORANZE»: Parte VIII :: Sulle varianti diacroniche - (tratto da Archeologia delle minoranze: Intervista con Franco Motta - uscita prevista Settembre 2015)

Sulle varianti diacroniche



Obsolete Capitalism :: Seguendo il vostro schema interpretativo di 'Elogio delle minoranze', un nucleo di potere retrivo si è auto-conservato evolvendo nei secoli, dominando di fatto la società italiana, grosso modo dal XVI secolo fino ai giorni nostri. Da Bellarmino a Berlusconi, si è trattato dunque di una co-evoluzione di élite / oligarchie che potremmo definire ‘varianti diacroniche’ di uno stesso sistema di potere. Perché tale processo evolutivo non ha interessato le minoranze virtuose da voi presentate nel libro? Questo quesito, ci pare di capire, non ha attraversato la vostra ricerca. Perché? 


Franco Motta :: In realtà non abbiamo ritenuto di poter contrapporre una continuità conservatrice e una variabilità progressiva nella storia italiana, quantomeno da un punto di vista fenomenologico. Del resto sarebbe difficile trovare qualcosa che formalmente unisca il cardinale Bellarmino a Berlusconi, se non altro perché il primo è un santo e il secondo un malvivente (il che, peraltro, non ha impedito alla Chiesa di riservare onori all’uno e all’altro).

Le oligarchie, le minoranze di conservazione, hanno segnato a volte una discontinuità di forme e di modi anche maggiore di quanto non sia stata quella delle minoranze di progresso: basti pensare, per citare un esempio più che noto, all’idea di statualità – autoritaria, classista, corporativa, ma pur sempre statualità – che permeava il regime fascista e al profondo rigetto della funzione dello Stato che caratterizza l’evoluzione del fascismo nella sua variante berlusconiana. Il fascismo, del resto, è proteiforme, e fa di questa sua capacità uno dei suoi grandi punti di forza. Ma se ci volgiamo ad analizzare la sostanza del discorso conservatore allora, a mio parere, questa multiformità tende a scolorire. La policromia fenomenologica del polo conservatore non deve essere scambiata per vigore evolutivo: per abilità mimetica, semmai. Dalla Controriforma alla Seconda repubblica sono mutate le parole e le fisionomie: non il discorso, non l’identità profonda del parlante.

Provo a rovesciare il discorso. Ho cercato poco fra di abbozzare una grammatica minima, o meglio un lessico minimo delle minoranze di progresso. Ho premesso a questo tentativo una considerazione, naturalmente confutabile: la stance progressiva, il punto di vista riformatore-rivoluzionario – perdona l’ossimoro: prima del Novecento i due termini procedevano di pari passo: il protestantesimo fu una rivoluzione che si chiamò Riforma, e agì come riforma della Chiesa – ha un periodo di nascita, e un periodo di sviluppo. Ha, in altri termini, una storia.

Anche la conservazione ha una storia? Il conservatorismo porta una data di nascita? La mia risposta di storico non può che essere positiva. Tutti i fenomeni umani hanno una storia, la storia è la natura dell’uomo, per parafrasare Lévi-Strauss. La conservazione nasce quando nasce il progresso. In termini meno apparentemente ideologici: la ricerca di stabilizzazione nasce quando nasce la ricerca di mutamento, perché senza questa la prima, semplicemente, non si dà. È soltanto realtà, forza immanente, legittimazione, come nelle società arcaiche.

Se la nozione di mutamento nel qui e ora, cioè di mutamento politico e sociale, nasce con la modernità, ne consegue che anche la nozione di conservazione nasce con essa. Il concilio di Trento fu un sensazionale sfregio alla tradizione compiuto nel nome della tradizione stessa. Fu reazione, nel suo senso più autentico. Contro i protestanti fu inventata una tradizione, che era quella di una teologia in realtà abbastanza recente, la teologia degli ordini mendicanti del tardo medioevo. A nessun teologo del XIII e del XIV secolo sarebbe apparsa accettabile la teologia tridentina, con la sua insistenza sul libero arbitrio, sulla preminenza del papa sui vescovi, sulla relatività del peccato originale. Eppure il concilio di Trento si narrò, e fu narrato, come il risveglio della tradizione contro l’innovazione luterana.

Qualcosa di molto simile accadde nel contesto delle insorgenze controrivoluzionarie di fine Settecento. Fu esemplato un credo, il credo delle catene e dell’obbedienza («ci teniamo care le nostre catene», dicevano i predicatori antigiacobini della Napoli del 1799), e fu spacciato come tradizione. Operazione di erculea potenza: le plebi dell’Italia settecentesca, che tutto erano meno che frementi guardiane della feudalità e dei principati assoluti, si scoprirono le loro prime e più preziose alleate. Nulla di strano in questo: un’azione concepita con lucidità e consapevolezza dei propri mezzi dalle élite conservatrici che si erano formate in secoli di scuola di direzione delle coscienze. In questo senso, lo dico per inciso, la Controriforma maturò i suoi frutti “migliori”, ossia i più velenosi, negli anni a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo; in questo senso De Maistre è il figlio più diretto del cardinale Bellarmino, fatte salve le debite distinzioni.

Seguito fino a questo punto, il mio discorso presta il fianco a una critica. Se progresso e reazione sono figli paritetici della modernità, perché il primo, almeno in Italia, perde, mentre il secondo vince immancabilmente? Questa critica, in realtà, porta al cuore del nostro discorso sulle minoranze. Avanzo una risposta in termini sintetici: questa presunta parità è un’illusione. È un tema che probabilmente resta in secondo piano nella nostra analisi, e che per questo ora merita di essere esplicitato.
Il politico ha sempre un retrostante referente culturale, antropologico. Ce lo ha spiegato con mirabile raffinatezza argomentativa Pierre Clastres: se le società arcaiche sono prive di Stato questo è dovuto al fatto che esse sviluppano meccanismi di repressione e di neutralizzazione delle spore della statualità, altrimenti detto delle pulsioni verso l’accumulazione del potere e il consolidarsi di gerarchie.

Questo significa che l’egualitarismo non è naturale, ma artificiale: è proprio della natura – della natura umana – sviluppare la differenza, e quindi la subalternità; è proprio della cultura porvi un freno, fino a quando lo permettono le dinamiche sociali e politiche – demografiche, secondo Clastres – del gruppo. Superata questa soglia, che è quella che evidentemente segna l’ingresso nelle società complesse, nelle società agrarie-tributarie che vediamo all’opera dall’età del bronzo, la gerarchia (referente ultimo del pensiero conservatore) si fa cemento della coesione sociale. Si pensa definitivamente natura, quindi immutabilità – malgrado sia essa stessa cultura, poiché la differenza originaria perde il suo carattere naturale in seguito alla dialettica con l’egualitarismo tribale. Dal tempo senza storia delle società contro lo Stato occorre procedere fino al tempo senza tradizione della rivoluzione moderna: in mezzo, la lunga fase del predominio delle gerarchie.

Posta in questi termini la questione muta di segno. La lotta delle minoranze progressive della modernità non è lotta contro la storia, ma lotta contro la natura – la natura artificiale, ovviamente, della narrazione conservatrice –, o contro quelle sue incarnazioni che sono il diritto divino dei re, l’antichità immemorabile delle aristocrazie, la storia sacra e tutto quanto rinvia all’archetipo del vero in quanto esistente. La dialettica che portò alla nascita dei diritti dell’uomo fu una titanica battaglia contro l’idea della naturalità delle differenze. Perché mai un popolano avrebbe dovuto avere dalla nascita gli stessi diritti di un patrizio?

Questa dialettica non ha un vero termine, una vera sintesi. La tragedia delle minoranze progressive sta tutta qui: muovere guerra all’esistente corrisponde sempre a muovere guerra a una presunta natura. Se le circostanze storiche lo permettono, com’è stato per le democrazie europee del Novecento, questa guerra si risolve con la genesi di una seconda natura, la natura a tutti noi oggi nota, che è quella proclamata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e acquisita dal discorso pubblico dell’Occidente contemporaneo. Che dietro questo esito si celino altri conflitti, interessi vincenti e nuove differenze è verissimo, ma ora non fa parte del nostro discorso. Obama è certamente una maschera vincente di Wall Street, ma Obama non è Berlusconi, né Renzi né Grillo.

Ecco allora la specificità italiana. La lotta delle minoranze di progresso contro la presunta naturalità della tradizione, contro la inemendabilità dell’esistente, in Italia non è mai stata conclusa. Il che equivale a dire che la modernità italiana è una modernità inconclusa, una modernità ancora soggetta a un confronto che altrove è stato superato, e nel caso sostituito da altri conflitti. Gli elementi di questa dialettica peculiarmente italiana possono essere facilmente identificati. Lo si può fare, semplicemente, leggendo in negativo il lessico delle minoranze di progresso.

Riprendo i termini esposti poco sopra: rifiuto della ragione dogmatica, emancipazione, apertura. Li rovescio, e ne desumo le conseguenze: obbedienza al dogma, soggezione, chiusura. Ecco tre princìpi che, nello specifico quadro culturale italiano, rivendicano naturalità, quindi immutabilità. Resto ancorato allo specifico italiano perché ritengo sia un caso paradigmatico, un case study che avrebbe molto da dire su di un piano universale.

Dunque: obbedienza al dogma, in primo luogo. L’oligarchia italiana, l’oligarchia eterna che si riproduce in forme e sembianti diversi, non ha mai rinunciato a questo principio fondativo. Il dottrinarismo della Chiesa non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Ma che dire dei dogmatismi che prescindono, in parte o in tutto, dal momento religioso? Il fascismo fondò la propria identità sul dogma dell’indiscutibilità del capo, e forgiando questa categoria la mise a disposizione di tutti i movimenti reazionari europei, che a volte la tradussero in principio carismatico di organizzazione della macchina amministrativa – il Führerprinzip nazista, che peraltro ebbe nel cattolico Carl Schmitt uno dei “padri costituenti” –, altre volte in replica secolarizzata dell’infallibilismo papale – il caudillismo, che dall’edificio clerical-fascista del franchismo si moltiplicò nella genìa sanguinaria e turbolenta delle dittature sudamericane. 

L’ideologia provinciale e cattolica dell’Italia democristiana degli anni Cinquanta e Sessanta è un altro esempio di dottrinarismo applicato alle dinamiche politiche (il rifiuto puro e semplice della diversità nelle sue varianti culturali, sociali, sessuali), che del resto fa il paio con il dottrinarismo del Pci degli stessi decenni, in una riduzione in sedicesimo delle guerre di religione che visse di un’opposizione antropologica fra l’Italia contadina e l’Italia operaia. Da ultimo, il discorso neoliberista, dominante anche in Italia a partire dagli anni Ottanta, è puro dottrinarismo concettuale e lessicale, come ho sostenuto prima; e va notato che esso, malgrado la crisi indotta dal crack del sistema speculativo, non ha ancora rinunciato alla sua originaria vocazione di pensiero unico, di teologia secolare che liquida come utopiche, o distopiche, le voci contrarie.

In secondo luogo, il filo rosso del principio dell’assoggettamento. Come potremmo individuare nell’emancipazione del soggetto generale, cioè del soggetto che non è ascritto all’élite, un dato costitutivo di fondo dell’azione delle minoranze di progresso, così la cristallizzazione dei rapporti di subalternità è un articolo di fede del credo delle oligarchie conservatrici.
Come ho detto poco sopra, l’egualitarismo è un costrutto culturale proprio di determinate società, essenzialmente le società arcaiche dei cacciatori-raccoglitori – contemplino o meno forme di agricoltura di sussistenza – e le società storiche di tipo nomade-pastorale. L’uccisione del capo ne è una costante archetipica. In entrambi i casi si tratta di società che non toccano la soglia di produzione di beni oltre la quale si verifica l’accumulazione di ricchezza, e dunque la nascita delle gerarchie sociali, oppure, se vi si avvicinano, esercitano meccanismi di dépense atti a neutralizzarla. Si tratta, ripeto, di meccanismi culturali, e in quanto tali soggetti alla fragilità propria delle culture, sottoposte a perenni processi di ridiscussione. Le civiltà complesse, per come le intendono la storia e l’antropologia, ossia di fatto le società urbane, sono di per sé società gerarchiche perché fondate sulla divisione delle funzioni, che non è semplice divisione del lavoro ma segmentazione di ruoli che dà vita a una stratificazione funzionale arricchita di simboli e identità: la funzione amministrativa, quella militare e quella religiosa ne costituiscono gli archetipi più primitivi e universali.

Entrate in questo paradigma, le società fanno il loro ingresso nella storia, a partire dal fatto che producono scrittura, che è di per sé funzione elitaria di cui è incaricata una corporazione di addetti alla produzione, alla riproduzione e all’interpretazione di documenti. Abbiamo esempi di società storiche immuni dal fato della gerarchia? Non mi risulta. Per fermarsi al mondo antico, fra l’altro, le società europee non sono le più rappresentative al riguardo: le evenienze più coerenti con questo modello provengono dall’Asia – la società castale indiana, le dinastie confuciane cinesi –, dall’Africa – i regni del Sudan fondati sul commercio degli schiavi – e dall’America – gli imperi militari-sacerdotali del Meso- e Sudamerica. L’Europa, l’Europa moderna, ha semmai sperimentato in una scala inedita di espressioni il raffinamento delle strutture di differenziazione gerarchica, inventando quei dispositivi di disciplinamento e di marginalizzazione dei quali Foucault ha così ampiamente ricostruito la genesi ideologica.

L’Europa dell’età delle crociate era indubbiamente meno gerarchica dell’Europa dell’Illuminismo: non perché non conoscesse le diseguaglianze, ma perché era estranea a quella “microfisica” della gerarchia che fu il prodotto della specializzazione dei saperi e delle funzioni che si innescò essenzialmente con lo sviluppo del capitalismo agrario e commerciale, con l’introiezione delle istanze del disciplinamento religioso e con l’espansione degli apparati amministrativi e militari dello Stato moderno. È esattamente in questa fase, che decolla dallo scorcio del XVI secolo (i decenni della grande inculturazione religiosa praticata da tutte le confessioni, come hanno certificato le ricerche che fanno capo a Heinz Schilling e Wolfgang Reinhard, che sono anche i decenni del germogliare delle società per azioni e delle compagnie commerciali, nonché della guerra continentale generalizzata, fino alle paci di Westfalia del 1648), che élite di progresso ed élite di conservazione si fanno soggetti attivi di una dialettica che ruota tutta attorno agli obiettivi opposti dell’abbattimento e del consolidamento delle barriere gerarchiche. La posta in gioco, è chiaro, non è sempre e soltanto sociale: può essere religiosa, culturale, epistemica (come nel caso dei galileisti del Seicento); ma resta il fatto che l’emancipazione del soggetto resta il fulcro del conflitto.

Di quale soggetto stiamo parlando? Il soggetto del mondo del commercio e delle professioni – il soggetto borghese, in altre parole – che è il protagonista delle rivoluzioni atlantiche della fine del XVIII secolo non è il soggetto contadino e operaio delle rivoluzioni del secondo e del terzo decennio del XX. Come il soggetto lavoratore della fabbrica novecentesca non è l’«occupato» dell’età neoliberista, che subisce la disarticolazione delle tutele contrattuali e la dissoluzione delle istanze sindacali. Ecco che interviene la dinamica della stabilizzazione del potere: le oligarchie conservatrici interpretano, di volta in volta, secondo le relative condizioni storiche, i programmi dei blocchi sociali di potere, a volte denotati da contrapposizioni ideologiche ma cementati dal comune interesse verso la tutela di posizioni di privilegio, che in crudi termini sociologici si declina in pratiche di esclusione dei gruppi che ne restano estranei. Lette sotto questa luce, le élite politiche e sindacali appartenenti all’alveo della sinistra storica italiana del secondo Novecento non sfuggono alla regola: se i loro referenti sono segmenti privilegiati della società, e i loro avversari sono tutti quei soggetti che, a partire dall’ultimo decennio del XX secolo, sono rimasti esclusi dalla cittadinanza piena – che è quella che nella società capitalista vive entro il flusso delle regole che garantiscono la giusta rispondenza fra lavoro e retribuzione –, allora vediamo che l’oligarchia conservatrice si allarga, si fa poliedrica e ideologicamente contraddittoria, perde colore politico e guadagna sostanza di materialismo storico. Questo discorso è rimasto in secondo piano nel libro; credo che vada posto nella giusta evidenza, poiché l’ultima cosa che vorrei è di essere tacciato di manicheismo.

Infine, il terzo rovesciamento di principio: chiusura contro apertura. L’oligarchia conservatrice disconosce i nuovi soggetti. Assume come irrinunciabile l’imperativo tassonomico. La conservazione ha bisogno dell’ordine come dell’aria che respira; nell’ordine trova la giustificazione ultima della propria rivendicazione di naturalità. Mi riferisco, ovviamente, alla sfera culturale: sul piano del puro gioco politico e militare tanto l’ordine quanto il disordine sono funzionali alle strategie oligarchiche, come ci indica la politica estera degli Stati Uniti di questi ultimi tre lustri.

L’ordine di cui parlo è prima di tutto lessicale: ‘noi’ contro ‘loro’, con il relativo ventaglio semantico che rinvia al motivo dell’appartenenza contro l’alterità. Coppie lessicali analoghe si moltiplicano secondo le infinite declinazioni del principio di chiusura, secondo logiche transeunti di cui resta a volte soltanto lo scheletro fossile della dicotomia: l’opposizione ortodosso/eretico dominò per almeno un secolo e mezzo il discorso pubblico europeo, fino alla fine del Seicento; quella bianco/nero è ancora oggi possente alle periferie dell’Europa e degli Stati Uniti, mentre ha perduto valore nei centri della produzione di ricchezza, e lo stesso si potrebbe dire della coppia eterosessuale/omosessuale; quella anglosassone/latino, o nordico/mediterraneo, pare conoscere attualmente rinnovata fortuna europea e americana. Questo vocabolario duale genera una grammatica, e quindi un discorso della chiusura, il quale a sua volta dispone una serie di pratiche che rinviano al disconoscimento, alla negazione dell’universalità del soggetto.


La pratica che da questo punto di vista connota più fortemente le oligarchie conservatrici italiane, e che più di tante altre ha determinato il profilo sociale e culturale della penisola, resta a mio parere il rifiuto sistematico delle regole. Occorre chiarire: non sto contraddicendo l’idea di poco fa circa il bisogno classificatorio, e dunque normativo, dei gruppi di conservazione. Le norme proprie delle oligarchie italiane sono le norme non scritte, consuetudinarie e comunitarie che scandiscono la vita delle famiglie e dei gruppi, e che in quanto tali rispondono al dualismo originario appartenenza/non appartenenza, successivamente declinato secondo i casi. Le regole di cui parlo, invece, sono quelle positive, scritte e universali che sono un portato dello Stato moderno: la produzione legislativa, in altri termini, e i testi subordinati. Queste regole della comunità organizzata in Stato hanno un’originaria radice emancipatoria in quanto universalista; il loro referente è il cittadino senza specificazioni, e per questo esse sono costitutivamente proiettate sull’orizzonte dell’apertura, cioè dell’inclusione. È per questo che i meccanismi di cittadinanza dovrebbero essere uno fra i poli d’interesse delle élite progressiste, soprattutto oggi che le barriere delle identità etniche e religiose stanno acquistando, purtroppo, nuova solidità. Al contrario, il rifiuto della regola, l’evasione e lo sprezzo della regola, che sono pratica e bandiera comune della destra italiana della seconda metà del Novecento e che sappiamo tutti essere diventati programma politico con la galassia berlusconiana, sono meccanismi di riproduzione del privilegio, poiché è noto che dove non esiste il diritto garantito dalla legge vige, indisturbato, il privilegio, e con esso la chiusura oligarchica. Spero di essere stato sufficientemente chiaro, pur in questo tentativo di sintesi.
( segue )


Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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Elogio delle minoranze

Le occasioni mancate dell'Italia 

Elogio delle minoranze
Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.

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