mercoledì 24 giugno 2015

INTERVISTA A FRANCO MOTTA SU «ELOGIO DELLE MINORANZE»: Parte VII :: Sulla strategia come via del paradosso - (tratto da Archeologia delle minoranze: Intervista con Franco Motta - uscita prevista Settembre 2015)

Sulla strategia come via del paradosso



Obsolete Capitalism :: Cerchiamo di approfondire la ‘ratio’ di élite e minoranza. Come vi ponete, dal punto di vista storiografico e politico, rispetto alla scuola della ’teoria delle élite di Pareto e Mosca? Se, come afferma Sun Tzu, «la strategia è la via del paradosso», perché non inserire nel vostro libro la scuola dell’élitismo italiana nel novero delle minoranze intellettuali, per poi confutarne i contro e sottolinearne i pro all’interno di un capitolo a loro dedicato?


Franco Motta :: Questa vostra domanda riporta al centro del discorso la nostra scelta lessicale. Non potevamo non confrontarci, infatti, con la semantica dominante del termine ‘élite’: sarebbe stato, francamente, suicida, a meno di non impegnarsi in una ridiscussione complessiva dell’accezione corrente dell’elitismo, che era al di là delle nostre intenzioni. Curiosamente, il discorso inaugurato da Mosca e Michels è rimasto aperto, inconcluso: la teoria delle élite si è ossificata in puro e semplice realismo politico, che è la matrice di ogni discorso reazionario; come notavo prima, la possibilità di pensare una modernità giusta, progressiva, in termini di azione rivoluzionaria – o anche soltanto riformatrice – condotta da gruppi morali e consapevoli è rimasta priva di voce.

La svolta si è giocata probabilmente fra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. Con la sua celebre Managerial Revolution, del 1941, James Burnham ha tacitato una tale eventualità dipingendo un futuro di élite tecnocratiche sorde alle sollecitazioni esterne e dedite alla cooptazione, dunque all’esclusione e alla pura e semplice gestione e riproduzione del privilegio. Alla luce dell’analisi sociologica americana le élite sono mutate in casta, e questa svolta semantica ha continuato a essere dominante nei decenni successivi. George Orwell ne ha fatto il filo conduttore della sua distopia totalitaria. Nulla di nuovo sotto il sole, in un certo senso: di Machiavelli fu passata sotto silenzio la vocazione civica ed egualitaria, antimagnatizia, e il Principe restò l’archetipo di ogni programma di cruda conquista e preservazione del potere. 

Un’élite conservatrice di raffinata capacità egemonica, quella delle teste pensanti della Controriforma, fu all’origine di questa operazione selettiva, che resta una tra le più efficaci imprese di contrabbando culturale della storia della politica moderna: la madre del primato della ragion di Stato – questo sì un feticcio dell’elitismo conservatore –, che dalle paci di Westfalia agli accordi di Yalta (ma potrei fare un esempio più recente di cinquant’anni, gli accordi di Dayton) è stata il basso continuo delle politiche spartitorie delle potenze fondate sul controllo e lo “riempimento statuale” dello spazio, quello che Carl Schmitt definì lo Ius publicum Europaeum.

L’imperio della ragion di Stato del pieno Novecento, ulteriormente avvelenato dalle risorse dell’ideologia, ha fatto il resto. L’essenza mostruosa e schizofrenica del dispositivo di potere nazista, dipinta già nel 1942 (un anno dopo Burnham) dal Behemoth di Franz Neumann – socialdemocratico di Weimar esule negli Stati Uniti ed esperto di problemi tedeschi per l’Oss –, rivelò come il connubio fra élite politiche e monopolistiche potesse dare vita a esperimenti di repentino successo e di energia devastante come il regime della Nsdap. Questa lettura lucida e circostanziata si applicò facilmente, e con fondate ragioni, non soltanto al totalitarismo sovietico, che nel suo zenit staliniano si era nutrito di élite cannibali che divoravano loro stesse, ma allo stesso modello della democrazia vincitrice per eccellenza: a Neumann si ispirò esplicitamente Charles Wright Mills per il suo celebre The Power Elite del 1956, che smascherò il sistema castale imperniato sulle corporations, l’esercito e le università delle Ivy League che governava gli Stati Uniti e che a sua volta dettò a Eisenhower la sua denuncia della forza sotterranea dell’apparato militare-industriale americano. 

L’irruzione del neoliberismo fu, politicamente e ideologicamente, l’effetto della mutazione di questa analisi critica in apologia, e più ancora, in virtù della veemenza ipnotica dell’immaginario reaganiano, in mitopoiesi: è memoria appena dell’altro ieri il tripudio tecnocratico degli anni Ottanta, l’esaltazione di nuovi teologumeni come il primato dogmatico della finanza, la pretesa legittimazione scientifica delle discipline economiche, la canonizzazione del ceto manageriale e quant’altro. Nella remota provincia italiana l’idea craxiana e dalemiana del «partito del presidente» non è stata che un simulacro artigianale e truffaldino di questa narrazione che soltanto adesso comincia a rivelare la sua natura dottrinaria.


Quello che resta, allora, è un lampante strabismo interpretativo: la nozione stessa di élite schiacciata sulla sua accezione negativa, la perdita della consapevolezza della natura di imperativo morale che il progresso ha avuto nella piena modernità novecentesca, la scarnificazione di ogni progetto egemonico – progressista o conservatore che sia – alla pura avidità predatoria, secondo modelli che comprendono la Russia eltsiniana, l’Italia berlusconiana (attualmente nella fase epigonica del renzismo), gli Usa dell’età di Bush e tanto altro. È ovvio che dietro questo gap analitico si colloca la precisa volontà di falsificare la realtà negando la pensabilità del progresso, ma questo esula dalla domanda. Mi sembra però evidente, di fronte a questo, che la scuola elitista italiana sia rimasta tutto sommato sterile, e quindi difficilmente valutabile come minoranza intellettuale con potenzialità egemoniche. ( segue )



Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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Elogio delle minoranze

Le occasioni mancate dell'Italia 

Elogio delle minoranze
Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.

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