INTERVISTA A FRANCO MOTTA SU «ELOGIO DELLE MINORANZE»
Con il presente post inizia la pubblicazione della conversazione con Franco Motta, co-autore con Massimiliano Panarari, del libro «Elogio delle minoranze» uscito per Marsilio nel 2012. La conversazione è composta di dieci domande che verranno pubblicate singolarmente giorno dopo giorno a partire da oggi.
Parte I :: Sul carattere d'estrazione
Obsolete Capitalism :: Analizziamo il vostro libro "Elogio delle minoranze". Tra tutti gli aspetti della Storia e tra tutte le singolarità che s'intrecciano al suo interno, come riconoscere l'importanza di un carattere sul quale avete ritenuto opportuno soffermarvi per la vostra indagine e che ne ha poi determinato l'estrazione e dunque la composizione del libro stesso? Quali sono le caratteristiche che avete elaborato per determinare le scelte delle minoranze su cui soffermarvi all'interno del libro?
Franco Motta :: La questione che ponete è centrale per capire non soltanto il libro in sé, ma più ancora l’idea che vi sta dietro: un’idea che senza dubbio, come autori, non siamo stati capaci di far vivere di una vita che non fosse quella dell’ordinario decorso editoriale di un saggio – pubblicazione, promozione, recensioni e relative repliche. Da questo punto di vista mi sento di poter dire (e credo che Massimiliano sia d’accordo con me) che l’Elogio delle minoranze è stato un’occasione mancata, ed è davvero un caso che questa affermazione riprenda alla lettera il sottotitolo del libro.
Mi spiego meglio. In una prospettiva scientifica ponete una questione di metodo: sulla base di quali criteri avete individuato le esperienze storiche che potevano considerarsi paradigmatiche rispetto al fenomeno della “mancata modernizzazione” italiana? La vostra domanda ha un senso pregnante, visto che il nostro si è voluto qualificare come un saggio storiografico condotto – almeno nelle intenzioni, ma sono pronto a discutere anche di questo – con attenzione per il rigore metodologico sulla base del quale abbiamo costruito le nostre tesi. Ma fin qui siamo, per così dire, a metà del progetto, laddove l’altra metà rispecchia invece l’intenzione di comporre un saggio di denuncia, o un pamphlet, se vogliamo usare un termine più incisivo, che sapesse provocare e collocarsi sulla lunghezza d’onda del dibattito politico, se ancora qualcosa di simile esiste in Italia.
Per rispondere mi sembra di poter essere più chiaro partendo non da quello che c’è ma da quello che manca. Dunque: perché dalla griglia di case studies che abbiamo approntato sono assenti alcune esperienze considerate normalmente fondative dell’identità italiana contemporanea mentre ne sono presenti altre che possono essere legittimamente considerate di secondo piano? Voglio essere esplicito: perché non la Resistenza e invece gli igienisti dell’Italia liberale? Perché non i radicali e invece gli eretici del Cinquecento? Le due assenze che ho citato non sono scelte a caso. La Resistenza è stata, per così dire, il progetto mancato di una repubblica giusta e moralmente legittima; il fatto che abbia generato la Costituzione non toglie, infatti, che essa non abbia saputo diventare classe dirigente dell’Italia repubblicana per trasformarsi da subito, invece, in mito originario, e con questo essere relegata all’ambito della memoria nazionale e subire un precoce isterilimento di quelle spore di democrazia che ne hanno fatto un fenomeno probabilmente unico a livello europeo. Per quanto riguarda i radicali, e con loro il côté laico e dialettico, non dogmatico, del Partito socialista (che restò afono dalla fine degli anni Settanta: al di là delle celebrazioni postume, il craxismo fu culto dogmatico del capo), non c’è dubbio che la loro sia stata una funzione di primissimo piano nell’evoluzione della teoria e della pratica dei diritti nell’Italia medio-novecentesca. Perché allora non includere queste due realtà storiche – e naturalmente se ne potrebbero contare altre – tra le minoranze che hanno testimoniato la possibilità teorica di un’altra Italia?
Alla base della nostra scelta stanno due considerazioni. La prima coinvolge il tema della profondità storica. Quello che volevamo, al momento di progettare il volume, era restituire allo sguardo politico la misura del lungo periodo. Credo di poter dire che si è trattato di un’opzione pienamente scientifica, di ricerca. La centralità dei fenomeni di lungo periodo ai fini dell’analisi dei processi di composizione del presente ha dominato indiscussa negli anni di Braudel e Bloch, insomma delle «Annales», la cui lezione fu recepita in Italia non prima dei tardi anni Sessanta o anche dopo, con almeno un quarto di secolo di ritardo. Questa chiave di lettura ha prodotto risultati di considerevole spessore – penso prima di tutto alla Storia d’Italia Einaudi – che tuttavia non hanno saputo diventare discorso culturale corrente, cioè produrre dibattito e riflessione al di fuori delle cerchie accademiche.
Le eccezioni non mancano: la rivista «Storica» ne è un esempio. Ma, nel complesso, quell’esperimento si è atomizzato in una pluralità di percorsi di ricerca ai quali ha fatto difetto la capacità della sintesi. Per quanto riguarda il mio personale ambito di studio, la storia moderna, posso citare l’esempio della storia sociale della Chiesa, che negli anni Ottanta ha prodotto eccellenti risultati nella conoscenza dei meccanismi del governo diocesano (le visite pastorali, ad esempio) senza però giungere a livelli di ampio respiro quali sono stati, altrove, i lavori di Jean Delumeau o John Bossy. Abbiamo dovuto aspettare Tribunali della coscienza di Adriano Prosperi o La Bibbia al rogo di Gigliola Fragnito (1996 e 1997, rispettivamente) perché gli effetti secolari dei meccanismi di controllo della Chiesa tridentina nella formazione dell’identità culturale italiana fossero inquadrati all’interno di un discorso storiografico.
Ecco, da questo punto di vista quello che volevamo recuperare al discorso storico era la possibilità di leggere il presente attraverso le persistenze sotterranee di esperienze culturali, politiche e religiose apparentemente dimenticate: per tornare ai due esempi che ho fatto sopra, la Resistenza può essere allora considerata a sua volta come un alveo nel quale sono confluiti filoni di prassi e di pensiero precedenti, dal comunitarismo socialista al ribellismo popolare dell’età preindustriale; e lo stesso, con altri riferimenti, vale anche per l’esperienza dei radicali.
Poi c’è una seconda ragione della nostra scelta, che rinvia a un’altra chiave di lettura, questa volta pregna di implicazioni più attuali. Quando abbiamo iniziato a concepire il volume, grosso modo sette-otto anni fa, stava avviandosi alla sua fase discendente il ventennio berlusconiano, che aveva visto lo zenit attorno al 2001, con il G8 di Genova, e che nel suo deflusso stava lasciando allo scoperto quel cumulo di detriti sociali e culturali che ha penetrato il tessuto del nostro paese fino a diventare la palude di immobilismo e impotenza nella quale stiamo annegando.
Le scorie più tossiche di quella stagione sono chiaramente riconoscibili: il dissolvimento dell’idea di etica pubblica, la rincorsa suicida della sinistra alle politiche neo-liberiste e alla brutale fame di privilegio del ceto dirigente, l’attacco ai diritti civili e sociali, a partire da quello al lavoro, l’avversità verso ogni forma di radicalismo progressista, il blocco della mobilità sociale, il soffocamento delle prospettive delle giovani generazioni e tanto altro. Nella nostra ottica tuttavia ci sentivamo, ci sentiamo, di rifiutare la dottrina dell’eccezionalità del berlusconismo, ritenendo più corretto analizzarlo come epifenomeno di tendenze più profonde e radicate nella società italiana. Come spiegare altrimenti l’indiscutibile egemonia che è stato in grado di esercitare?
Queste tendenze erano già state acquisite da decenni al patrimonio comune del pensiero politico e sociologico. Mi limito a due esperienze seminali: la celebre ricerca condotta da Edward C. Banfield nella Basilicata di metà anni Cinquanta, che fluì in un saggio fondamentale, The Moral Basis of a Backward Society – cui si deve, tra l’altro, la nozione di «familismo amorale» –, e, molto prima, la parabola intellettuale di Piero Gobetti. Già allo spirare della stagione dell’Italia liberale, e, trent’anni dopo, nel magma delle contraddizioni della neonata repubblica – i giorni dimenticati dell’occupazione delle terre in Calabria erano trascorsi da pochissimi anni, e così Portella della Ginestra – erano chiarissime le caratteristiche sociologiche, culturali, e, insisto, antropologiche che minacciavano di rendere l’Italia un corpo inerte e sordo alla modernizzazione. Dopo la stagione della contestazione e della mobilitazione delle forze progressiste del paese, tra il ’68 e il ’77, quei caratteri originali tornarono allo scoperto, assumendo la veste nuova del discorso mediatico forgiato da Mediaset.
Elenchiamoli succintamente: privilegio anziché diritto, fedeltà anziché merito, famiglia anziché individuo; e poi: conformismo, anti-intellettualismo, estraneità all’idea di bene comune e, vorrei insistere su questo, rifiuto del conflitto come motore di sviluppo in favore di una visione unanimistica e immobilistica del patto sociale fondata sulla dottrina del compromesso e del negoziato. Le tattiche egemoniche e il localismo della Dc ebbero una parte fondamentale in questo progressivo affievolirsi delle forze potenzialmente dirompenti che si erano sprigionate nel triennio della Liberazione, ma anche il PCI ebbe in questo le sue responsabilità, e la mutazione del movimento cooperativo ne è un esempio.
Ora, tutte le caratteristiche che ho elencato non sono geni costitutivi di una presunta identità italiana astoricamente intesa. Sono, al contrario, prodotti della storia. Meglio, sono conseguenze della sconfitta storica degli elementi loro antitetici, dei loro “anticorpi”. Il primato del privilegio, il conformismo, il comunitarismo organicista, il corporativismo, la diffidenza verso i vettori di crisi sociale erano elementi costitutivi delle società di Antico regime in tutta Europa: erano comuni anche all’Inghilterra, alla Francia e alla Germania del XVIII secolo. Per molti versi, anzi, le élite del triennio giacobino dell’Italia del 1796-99 erano più avanzate delle loro omologhe dei paesi citati. Quello che è mancato al nostro paese è stato il processo di secolarizzazione, per riprendere i termini weberiani dell’idea.
L’Italia del XX secolo non ha creato nuovi modelli – e con questo torno alla lettura storica del berlusconismo –, ma ha riportato alla luce, sotto nuove forme, modelli antichi che altrove erano stati abbandonati. Per questo ritengo che l’Elogio delle minoranze abbia, nel complesso, fallito l’obiettivo, che era quello di far riemergere questa storia ‘altra’, questa storia di conservazione, dell’identità italiana.
Con questo torno infine alla tua domanda: con quale criterio abbiamo scelto i case studies trattati nel volume? Semplicemente, compiendo un’operazione al contrario. Se la modernizzazione è individualismo, antidogmatismo, meritocrazia etc. sono esistite esperienze storiche che si sono fondate su questi presupposti? E, se sì, perché hanno fallito? Gli eretici del Cinquecento, gli igienisti, i socialisti cooperativi, i galileiani, i giacobini ci sono sembrati casi sufficientemente rappresentativi di questa fallita modernizzazione. In altri termini, un’opzione alternativa e contraria a quegli elementi di fondo del profilo culturale italiano che continuano a essere prevalenti. ( segue QUI )
Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.
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Elogio delle minoranze
Le occasioni mancate dell'Italia
Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.
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