martedì 23 giugno 2015

INTERVISTA A FRANCO MOTTA SU «ELOGIO DELLE MINORANZE»: Parte VI :: Sulla grammatica della minoranza politica - (tratto da Archeologia delle minoranze: Intervista con Franco Motta - uscita prevista Settembre 2015)

Sulla grammatica della minoranza politica 


Obsolete Capitalism :: Nell'introduzione della Vostra opera scrivete di "minoranza come elitismo" con segno "positivo". E' dunque possibile stabilire, attraverso la vostra ricerca, una grammatica (dove per grammatica s'intende quell'insieme di parole e prassi quotidiane che auto-enunciano le loro proprietà) della minoranza politica, culturale e sociale, seppur declinata all'interno del contesto italiano?


Franco Motta :: La possibilità di una grammatica minima del pensiero e della prassi delle minoranze progressive è in effetti un corollario dei presupposti teorici del nostro lavoro, visto che individuiamo quelle minoranze proprio sulla base della loro antiteticità sia rispetto al pensiero e alla prassi delle minoranze conservatrici, sia in rapporto alla cultura consolidata dell’Italia contemporanea. Ma una premessa è indispensabile.

Se parliamo di minoranze progressive e minoranze conservatrici è perché riteniamo che il progresso e la conservazione siano due forze effettive, aggregatrici di idee e di energie, rilevabili nella dinamica storica mondiale. In nessun modo, però, le crediamo entità metafisiche atemporali e universali (naturalmente mi sto riferendo al progresso civile e sociale e non al progresso tecnologico, che data dalla comparsa del genere homo e si avvicina di più a essere un universale).

L’idea di progresso si sviluppa in determinate circostanze storiche, le circostanze in cui è germogliata e fiorita la cosiddetta modernità nell’Europa del XV-XVI secolo; l’idea di conservazione, nell’accezione politica che assumiamo, prende forma di conseguenza. Dunque una tale grammatica non può che essere esemplata su “regole” che acquisiscono senso e uso nella modernità, e che a noi restano a tutt’oggi riconoscibili.

Temporalità e consonanza lessicale, dunque. Con questo non nego che alcune istanze sociali, culturali o politiche possano assumere rilievo anche in altre epoche e in altre realtà geografiche, ad esempio rivendicazioni di giustizia sociale, di affrancamento da condizioni di soggezione e servitù, e senza dubbio parecchio altro. Il punto, a mio parere, è che solo nelle condizioni della modernità quelle rivendicazioni si aggregano su un piano ermeneutico del tutto peculiare, che è quello della lettura del reale come entità passibile di mutamento e dunque di miglioramento. Reinhart Koselleck ha scritto pagine giustamente note su questo tema quando ha svelato la mutazione semantica in cui era incorso il termine ‘rivoluzione’ tra il XVI e il XVIII secolo.

Comprendo bene che queste mie considerazioni possano sollevare sospetti di etnocentrismo e di un privilegio del momento della modernità che può suonare teleologico. Provo allora ad aprire un inciso di chiarimento.

Il tornante fondamentale nell’evoluzione dell’intelletto progressista risiede nella nascita dell’idea dei diritti dell’uomo. Non c’è dubbio che i diritti dell’uomo siano stati concepiti e impiegati come una leva atta a scalzare precedenti gerarchie di potere e a sostituirle con il potere del soggetto borghese produttivo, con la ragione produttiva che, alla fine del Settecento, era opposta alla ragione delle élite cetuali e feudali. Il fatto stesso che tra questi diritti sia stato incluso, prima con le carte della Rivoluzione americana e poi con le Costituzioni francesi del 1791 e del 1795, il diritto intangibile di proprietà, con le conseguenze che questo ha avuto nell’edificazione dei regimi liberali del XIX secolo, è un’evidente prova in favore della natura egemonica del discorso dei diritti umani. L’uso spregiudicato che ne hanno fatto gli Stati Uniti durante la Guerra fredda come strumento di lotta ideologica è un’ulteriore prosecuzione di questa originaria vocazione polemica.

Il fatto è che il dispositivo concettuale dei diritti dell’uomo è un dispositivo aperto, un dispositivo che contiene in sé la negazione dei propri limiti in direzione di un’apertura universale del proprio significato ultimo: se i diritti fondamentali pertengono all’uomo in quanto tale, allora le diverse condizioni in cui vive l’uomo producono costantemente nuovi diritti che mettono in discussione i confini sanciti dai diritti precedenti. In quanto tale, esso è un dispositivo duale, perché è al tempo stesso a disposizione del potere e delle forze antagoniste che si muovono contro il potere. Il discorso dei diritti ha svolto un ruolo irrinunciabile nella lotta per l’emancipazione delle classi lavoratrici – benché celato dalla filosofia del materialismo storico –, o nel processo di decolonizzazione, o ancora nel movimento per i diritti civili in America, per fare tre esempi di dialettica storica rivolta contro il predominio di modelli di sfruttamento costruiti sul primato della ragione produttiva e proprietaria. 

Il tema su cui vorrei richiamare l’attenzione è però che i diritti dell’uomo sono incontestabilmente un prodotto della cultura europea del XVIII secolo. Non perché essi, in astratto, non avrebbero potuto essere pensati altrove, ad esempio nel mondo indiano: la connected history di Sanjay Subrahmanyam ci ha mostrato come la cultura indiana del ‘4-‘500 abbia prodotto fenomeni culturali paralleli e paragonabili a quelli che si ritenevano esclusivi del contesto europeo, come la capacità di produrre storiografia, fatte salve le differenze nei referenti discorsivi. Semplicemente, l’Europa moderna ha esperito le condizioni storiche perché il concetto di diritti naturali acquisisse uno specifico spessore politico, e prima ancora culturale.

L’Illuminismo è stato il fattore fondamentale, certo, ma Rousseau e Condorcet non hanno pensato i diritti dal nulla: la loro esperienza intellettuale è stata il delta in cui sono confluite esperienze precedenti, in larga parte extrasoggettive, cioè indipendenti dalla riflessione filosofica e dall’azione pubblicistica dei singoli. Tre esempi, i più macroscopici.

Il primo: il diritto alla libertà di coscienza, la cui esplicitazione non avrebbe potuto concretizzarsi se non a valle della frattura religiosa data dalla Riforma e dal problema dello Stato a confessione mista, che è il problema che sottende la pratica politica del Cinque-Seicento. 

Il secondo: la rivoluzione scientifica, che fu certo affermazione della ragione matematica e quindi dell’egemonia della razionalità cartesiana, ma anche, e prima di tutto, potente generatrice di pensiero dialettico, di confronto fra teorie sottoposte all’onere della prova, e dunque di rottura del tabù della tradizione come fonte suprema di legittimità (questo sì, peraltro, un universale antropologico). 

Il terzo: la scoperta del Nuovo Mondo, il contatto con l’alterità dei «selvaggi», dei popoli allo «stato di natura», com’era d’uso dire all’epoca; un contatto che nella cultura dell’epoca determinò la pensabilità dell’evoluzione delle civiltà umane, e quindi proiettò la visione dell’uomo e delle sue istituzioni su un’orizzonte di temporalità, ergo di relatività. Non a caso Étienne de la Boétie compone il suo straordinario Discorso sulla servitù volontaria, la prima vera denuncia della natura mistificatoria e artificiale del potere, nel clima di eccitato interesse che la Francia di metà Cinquecento riservava alle relazioni di viaggio dal Brasile.

Né il protestantesimo, né la scienza moderna né le esplorazioni oceaniche hanno direttamente nulla a che fare con la nozione di diritti umani. Eppure questi tre fenomeni storici, come certamente altri, hanno svolto la funzione di lievito di quel pensiero che solo con la seconda metà del Settecento ha esplicitato e rivendicato quei diritti. E non c’è dubbio che questi stessi fenomeni, per le cause storiche più diverse, abbiano trovato nell’Europa moderna il proprio luogo di nascita. Lo stesso si potrebbe dire se volgiamo queste considerazioni sul piano temporale. Erano realizzabili le fondamenta del pensiero di progresso prima della cesura della  modernità? A mio parere no, non nella stessa accezione.

La democrazia delle póleis greche precede la democrazia contemporanea, ne costituisce il mito fondativo e ne detta alcune regole di base, a partire dalla regola della maggioranza. Ma la distanza fra le due resta tale da presentarsi come una distanza qualitativa invalicabile. La democrazia greca, e questo lo spiega bene Hannah Arendt in Vita activa, è una democrazia delle élite eretta sull’esclusione – delle donne, degli schiavi, dei meteci – anziché sull’inclusione; un’esclusione di natura, non di cultura, e in quanto tale pretesamente immutabile, laddove il pensiero progressivo per sua definizione (progredior, ‘avanzare’) non può che muoversi entro l’orizzonte del superamento della preteso carattere naturale delle differenze sociali e giuridiche.

Un secondo esempio, altrettanto paradigmatico: le comunità dei primi cristiani, la cui memoria, trasfigurata in mito, è stata un filo rosso che ha percorso il pensiero eterodosso – non soltanto cristiano: il Gesù rivoluzionario fu una potente figura di propaganda dell’immaginario socialista ottocentesco – lungo tutta la storia dell’Occidente. In effetti l’archetipo protocristiano della povertà, dell’eguaglianza e della condivisione dei beni è stato un regolare controcanto agli assetti consolidati del potere politico e religioso: da quell’archetipo presero respiro le esperienze del monachesimo altomedioevale, del catarismo, del francescanesimo radicale, della devotio moderna del XV secolo e ancora oltre.

Possiamo considerarlo allora un modello di critica progressista ai diversi avatar storici dell’ingiustizia sociale, della diseguaglianza? Senza dubbio no, se non altro per la sua sostanziale identità escatologica. L’escatologia è un potentissimo dispositivo culturale di sovversione del potere, ma non è in alcun modo un discorso di progresso, poiché proietta in un mondo altro, non in questo, il desiderio di emancipazione del soggetto. Il profilo carismatico di Paolo è eloquente: il suo radicale superamento delle differenze di status, di genere e di etnia proclamato nel celebre passo della Lettera ai Galati (3,28) deve essere letto sull’orizzonte del Regno, che è realtà escatologica e non entità storica, e per questo si accompagna all’altrettanto celebre apologia dei poteri costituiti dell’assioma nulla potestas nisi a Deo di Romani 13,1. Sospendo il giudizio in proposito soltanto in riferimento a due casi tra loro coevi, quello degli anabattisti della precoce traiettoria espansiva della repubblica comunista di Münster e quello del Bauernkrieg, la rivolta contadina evangelica che infiammò la Germania meridionale nel 1524-25. Ma come si vede siamo già nel cuore della modernità religiosa, allorché il politico, in senso ampio, è piena parte in causa.

Questa lunga premessa mi è servita per tracciare un terminus a quo della genesi del  discorso progressista, che è appunto discorso pienamente discendente dalla cesura della modernità. Per riprendere il filo della tua domanda provo allora a isolare alcune regole minime della grammatica delle minoranze di progresso. Cerco di sintetizzare.

La prima regola che mi viene in mente è il rifiuto della ragione dogmatica. Il dogma, ‘ciò che è decretato’, è il corrispettivo della tradizione nel campo intellettivo, ovvero l’esercizio dell’obbedienza applicato all’acquisizione di conoscenze e convinzioni. Su questo ci sarebbe molto da dire: la dogmatica cattolica della modernità, ad esempio, ha un suo punto iniziale, il concilio di Trento, che sancì l’intangibilità della tradizione come fonte della fede accanto alla Scrittura, e un suo punto finale, il Sillabo di Pio IX del 1864, che legò i credenti al rifiuto sic et simpliciter dei cosiddetti errori del mondo moderno, dalla democrazia al libero pensiero. Ma sarebbe sbagliato circoscrivere la ragione dogmatica alla cultura della Controriforma o della Restaurazione: l’attuale primato incontestabile della ragione, o meglio della narrazione economico-finanziaria è un caso esemplare di dogmatismo applicato all’analisi delle dinamiche sociali. In questo senso l’apparato tecnocratico che governa la cosiddetta eurozona è un caso lampante di élite conservatrice, laddove fa uso di un lessico apodittico –  rigore, crescita, pareggio di bilancio, Pil etc. – che non è giustificato da evidenze statistiche, ma si autoalimenta nel contesto di una potente mistificazione concettuale pseudoscientifica che rigetta le prove e contrario.

Una seconda regola individuabile è collegata all’esercizio di idee e pratiche emancipatorie. Se lo statuto del programma progressista è radicato nella genesi della modernità, allora il suo obiettivo non può che essere il superamento degli obblighi e delle appartenenze che caratterizzano il mondo premoderno: gli obblighi e le appartenenze di comunità, di ceto, di credo, di genere, di condizione giuridica e quant’altro. Il quadro naturalmente non si esaurisce qui: la modernità, a sua volta, forgia costantemente obblighi e appartenenze; la modernità produttiva, in particolare, nella forma di bisogni: il bisogno di consumi, in primo luogo, che nel paradigma del tardo capitalismo si tramuta in bisogno di identità plasmato dal mercato (nell’ultimo trentennio, in particolare, dal mercato dell’immateriale).

Le minoranze progressive si sono storicamente assunte il compito di abbattere le appartenenze, cioè di creare emancipazione. L’igienismo, ad esempio, aveva l’obiettivo di tutelare l’uomo nella sua integrità fisiologica universale, svincolandolo dalle fisiologie differenziali, di classe, che legittimavano la realtà della condizione patologica dei ceti subalterni. Gli eretici del Cinquecento contestavano in primo luogo lo statuto del laico come soggetto dipendente dall’intermediazione del divino attribuita in via esclusiva al clero. Il movimento femminista, nelle sue varie traduzioni storiche, è forse il caso più evidente di tutti, al pari del movimento antischiavista (e non a caso la prima metà del XIX secolo ha assistito a un’interazione ripetuta fra i due). A tutt’oggi il caso del movimento altermondialista, o no global, è un esempio tra i più recenti di minoranza progressista orientata verso l’emancipazione dal discorso e dalla pratica egemonica delle corporations. Il fatto che sia stato liquidato con la violenza a Genova rinvia, ancora una volta, alla natura paradigmatica della traiettoria storica italiana.


Una terza regola della grammatica delle minoranze di progresso rinvia a un’idea più generica di apertura, cui ho fatto cenno poco sopra in merito al discorso dei diritti umani. Apertura significa universalizzazione, non di identità, ma di possibilità: in altri termini, estensione indefinita dei soggetti che si considerano interlocutori. La pratica progressista non fornisce modelli validi a priori, bensì strumenti che possono essere applicati alla varietà delle condizioni storiche di partenza. I giacobini, ad esempio, avevano nell’istruzione repubblicana dei ceti inferiori uno dei capisaldi della propria azione politica, e persino all’estremo più rigido e dottrinario dello spettro progressista, quello delle élite marxiste-leniniste, la formazione umanistica e artistica, e non soltanto quella politica, identitaria, era considerata indispensabile ai fini della creazione dell’«uomo nuovo». In questo senso credo che l’attitudine maieutica possa essere considerata un carattere originale delle minoranze di progresso, e anche forse un buon metro per distinguere, a tutt’oggi, progetti e pratiche di emancipazione da progetti e pratiche di asservimento, soprattutto nel labirinto delle applicazioni delle nuove tecnologie.  ( segue QUI )



Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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Elogio delle minoranze

Le occasioni mancate dell'Italia 

Elogio delle minoranze
Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.

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