Sul popolo contro l'élite
Obsolete Capitalism :: Lo scenario politico post-fallimento Lehman Bros (2008) ha visto il ritorno prepotente del populismo nell’agenda politica del mondo occidentale. Una delle caratteristiche salienti del populismo di destra, in versione europea, è sia l’attacco oltranzista alle élite, all’establishment, sia una profonda repulsione per tutto ciò che è cultura e intellettualità. Oggi il populismo è la forma più riconoscibile tra i competitori anti-establishment e dunque è il “nemico” delle minoranze come le propugnate nel vostro libro, ovvero élite positive con ambizioni di “governance” e di militanza intellettuale riformista/rivoluzionaria. Con modalità acerbe e virulente allo stesso tempo, questo populismo pugnace - impersonificato in Italia dalla Lega di Salvini ma dal quale non sono immuni né il M5S di Grillo né Forza Italia di Berlusconi - tematizza che il “popolo” è contro le élite. A vostro avviso, quali vie d’uscita esistono per evitare l’acuirsi dello scontro tra democrazia rappresentativa - e le élite politiche, culturali e intellettuali che la informano - e il popolo, ovvero il soggetto fondativo della concezione liberale della democrazia contemporanea? Il populismo rappresenta una vera minaccia per la democrazia rappresentativa oppure è un fenomeno transeunte destinato, presto o tardi, al tramonto?
Franco Motta :: Parto dalla fine di questa vostra considerazione. Se intendiamo il populismo nella sua accezione minima, e cioè come richiamo al ‘popolo’ in quanto aggregato sociale indistinto, depositario di virtù definite per antitesi rispetto ai presunti vizi dei ceti dominanti (corruzione, doppiezza etc.), allora mi sembra di poter dire che il populismo sia un fenomeno tutt’altro che transeunte, e che sia invece connaturato alle dinamiche politiche che percorrono diacronicamente ogni società complessa nelle fasi di conflitto tra vecchi e nuovi attori del potere.
Di questo abbiamo, credo, prima di tutto evidenze storiche. Come ha mostrato fra gli altri Luciano Canfora con il suo consueto rigore filologico (Democrazia. Storia di un’ideologia), il regime di Pericle ad Atene, ricordato come l’archetipo della democrazia greca, si configurava in realtà come un sistema personale di potere del «primo cittadino» che, nel nome del bene del popolo, comprimeva le libertà assembleari; questo carattere populista del governo democratico ateniese è lucidamente descritto da Tucidide nel secondo libro della Guerra del Peloponneso.
Anche in altri passaggi storici si fanno leggere, se non ideologie vere e proprie, quantomeno culture e narrazioni politiche che si lasciano qualificare come populiste: quella che consente ad Augusto la pacifica assunzione del principato è certamente la più nota, ma nella lotta sociale nelle città italiane del tardo medioevo (gli episodi più noti sono quelli dei Ciompi di Firenze e di Cola di Rienzo a Roma), come pure nella Guerra dei contadini tedesca del 1524-25, nei gruppi radicali della rivoluzione inglese di metà Seicento e, con un profilo più limpidamente moderno – ed esplicitamente reazionario – nelle insorgenze anti-giacobine dell’Italia del 1799 abbiamo altri esempi che, almeno in parte, rinviano al discorso populista (per inciso noto che questi ultimi tre fenomeni condividono un altro sintomo caratteristico della sindrome populista, il profetismo).
Storicamente, dunque, il populismo si sviluppa nei contesti storici in cui i ceti subalterni, o se preferiamo le masse, costituiscono una fonte di legittimità politica. Non protagonisti di azione politica, intendo, ma semplicemente fonte di legittimità: il populismo presuppone la passività del popolo cui si appella, proprio perché solo nella passività e nella staticità possono conservarsi la purezza, la verità, l’onestà, e insomma tutte quelle virtù cui esso in genere si richiama. Forse, quantomeno in potenza, l’unica eccezione a questo principio è data dal movimento che dà il nome stesso a questa categoria politica, e cioè il populismo russo di Aleksandr Herzen e Nikolaj Černiševskij, che a metà Ottocento perseguiva l’idea di risvegliare le masse rurali dall’assoggettamento al feudalesimo zarista per ricondurle al presunto comunismo agrario delle origini; lo stesso socialismo marxista, peraltro, tenne inizialmente un orientamento quantomeno attento nei confronti di questa opzione, salvo poi respingerla nella conversione al dogma dell’esclusività rivoluzionaria della classe operaia.
A parte questo caso, mi sembra che il populismo e le ideologie del progresso abbiano generalmente preso due strade diverse, e che il primo abbia acquisito nel proprio corredo genetico, per così dire, i caratteri del conservatorismo e della pulsione reazionaria, declinati secondo le esigenze del momento. Il che non significa, naturalmente, che le ideologie democratico-liberali e quelle di ispirazione marxista siano state del tutto scevre, nel Novecento, di elementi populistici, anzi. Ma con il conflitto sociale che prende vita dalla fine del XIX secolo l’opzione populista si qualifica definitivamente come ricorso strumentale a un’idea astratta di popolo che assume rilievo essenzialmente in relazione ai nemici che si vogliono combattere, siano essi le élite liberali, i socialisti, i comunisti, gli ebrei, i radical della East Coast, i tecnocrati e quant’altro, a seconda delle circostanze con cui si ha a che fare. Poiché questa opzione è a tutt’oggi pienamente percorribile e anzi pienamente efficace, come tu stesso affermi citando la Lega Nord, il berlusconismo e il grillismo, mi sembra di poter concludere che il fenomeno populista possa essere considerato tutt’altro che una presenza effimera nel panorama storico dell’Occidente e forse anche del mondo.
Questa conclusione è suggerita anche da una seconda considerazione, questa volta di ordine non storico bensì concettuale. La radice verbale del concetto di cui stiamo discutendo, che le lingue romanze e l’inglese ereditano dal latino populus, sconta una divaricazione a mio parere straordinaria tra la propria forma aggettivata e quella sostantivata. L’aggettivo ‘popolare’ conta una gamma di significati abbastanza consolidata: sappiamo tutti a cosa ci riferiamo quando parliamo di ‘cultura popolare’, ‘gusti popolari’, ‘musica popolare’, persino ‘cucina popolare’. ‘Popolare’ è tutto quanto funzionalmente si oppone a ‘colto’, senza che questa opposizione si connoti necessariamente secondo elementi valutativi (anzi per Gramsci, come sappiamo, nello humus popolare prendeva nutrimento ciò che rendeva tale una nazione). La differenza è prima di ordine quantitativo che qualitativo, laddove ciò che è popolare si denota per un consumo allargato mentre ciò che è colto per un consumo ristretto. Ma se volessimo definire il sostantivo ‘popolo’ dovremmo rinunciare, mi sembra, a una tale precisione.
Che cos’è il popolo? Nel mondo classico il populus, il démos greco, era l’insieme dei cittadini liberi associati a funzioni produttive, e in quanto tali distinti da un lato dagli ottimati, identificati dall’appartenenza di lignaggio, dall’altro dalla plebe, la massa dei diseredati privi di proprietà. Quest’accezione di popolo continuò a lungo a restare valida. Nei Comuni medioevali il popolo era il ceto degli artigiani e dei commercianti riuniti nelle corporazioni, e ancora alla nascita degli Stati Uniti il people citato nel preambolo alla Costituzione americana si colora di queste tinte: è l’insieme dei liberi coloni, dei grandi proprietari terrieri e dei professionisti delle città, legato da vincoli di cultura e di interesse ma non di lignaggio né di religione, e quindi implicitamente contrapposto ai funzionari della corona inglese come pure agli indentured servants, i braccianti bianchi nullatenenti, e naturalmente ai mondi alieni degli schiavi e dei nativi americani, del tutto invisibili agli occhi dei padri costituenti.
I rivoluzionari francesi, che dovettero erigere uno Stato dalle macerie della monarchia assoluta in un quadro sociale enormemente più complesso, rinunciarono alla parola preferendole quella di ‘nazione’, che appunto si connotava semplicemente come antitesi dell’assolutismo, del diritto divino e della tradizione, ossia dell’Ancien régime. La parola ‘popolo’ perse da allora la sua perspicuità e fu soggetta a un rapido processo di frammentazione e di offuscamento semantico. Al popolo appartenevano i sanculotti parigini che assediarono Versailles e la Convenzione per il pane e la giustizia («L’ami du peuple» era il loro foglio, diretto da Jean-Paul Marat) come pure i contadini della Vandea che combattevano per il re e il Sacro cuore di Gesù e i sanfedisti calabresi del cardinale Ruffo che fecero strage di giacobini. Il movimento socialista e comunista fu probabilmente l’ultimo esempio di inquadramento lessicale preciso, e di segno progressista, del termine, allorché il popolo si identificò con la classe degli operai e dei braccianti agrari, estendendosi successivamente ai mezzadri e ai piccoli artigiani. Questa accezione fu in uso alla sinistra fino almeno alla metà del Novecento, ma essa era intrinsecamente refrattaria alle spore del populismo poiché il popolo non era inteso come un’entità positiva di per sé, ma in quanto classe rivoluzionaria la cui coscienza e le cui potenzialità dovevano essere fatte emergere dalle élite intellettuali marxiste (la critica che Asor Rosa mosse a Pasolini cinquant’anni fa in Scrittori e popolo è un eloquente esempio di questa posizione).
Con la rottura della Rivoluzione francese e la genesi della modernità politica, tuttavia, la nozione di ‘popolo’ fu disarticolata dalle sue precedenti incarnazioni storiche e consegnata al lessico dell’ideologia. Il romanticismo tedesco di Fichte, Schlegel e dei fratelli Grimm, come pure la mitologia controrivoluzionaria di De Maistre e Chateaubriand furono, come noto, i laboratori intellettuali di questa operazione, che pure dovette molto alle pulsioni anti-elitariste eternamente riverberate dall’egemonia cattolica sulle masse contadine.
Probabilmente contribuì a questa risemantizzazione – o forse a questo svuotamento semantico – la presenza di lungo periodo di un’altra accezione di popolo, quella cristiana e agostiniana di ‘popolo di Dio’ che si era innestata sul mito biblico del popolo di Israele quale comunità dei fedeli nella quale le differenze di ceto si stemperavano nell’adesione universale al patto religioso e ai precetti rituali e dottrinali. Fatto sta che, da allora, il concetto di ‘popolo’ si è trasformato in una forma culturale, o in quello che la psicologia analitica definisce archetipo: un significante entro il quale diversi significati possono essere riversati, e che in quanto tale è rielaborato e muta di contenuto a seconda del contesto in cui lo si impiega, pur conservando una propria efficacia intrinseca capace di produrre emozioni e reazioni di segno analogo – quali, ad esempio, il senso di appartenenza e la percezione di valori che trascendono l’individuo.
I populismi del Novecento si incaricarono di definire questa nuova accezione astratta di popolo con i criteri più diversi: quello biologico per il nazismo, quello religioso per il franchismo, quello nazionale per il fascismo italiano. Il craxismo, il berlusconismo e il chavismo – il primo con la sua esaltazione dell’accaparramento individualista, il secondo con la sua visione del popolo come massa dei consumatori, il terzo con il suo amalgama di indigenismo, comunitarismo e anticapitalismo – sono soltanto gli esempi più recenti di questa potenza proteiforme del populismo nella creazione di miti identitari.
Questo non significa, naturalmente, che l’opzione populista sia l’unico vettore di senso a disposizione dell’anti-democrazia. Le alternative sono note a tutti e ne menziono solo alcune. Il paradigma post-maoista vigente in Cina, che legittima il potere del Pcc attraverso la contaminazione tra la razionalità burocratica e il recupero dell’ideologia confuciana dell’armonia e della prosperità; il paradigma economicista che è discorso dominante in Occidente dal turning point degli anni Ottanta, con cui le élite politico-finanziarie si legittimano attraverso il ricorso a enti metafisici come la crescita e il mercato (la sua ultima versione è quella dottrinaria della Commissione europea); il paradigma teocratico, che vide lo zenit in Europa nel secolo delle guerre di religione (1550-1660) e che è oggi patrimonio del radicalismo islamico. Tutti e tre questi paradigmi sono ferreamente anti-populisti, nel senso che nessuno di loro vede nel popolo la sorgente della legittimità del potere quanto piuttosto l’antagonista di un principio sovraordinato di altra natura, che sia tecnocratico, economico o religioso.
Il radicalismo islamico, in particolare, mi sembra l’antitesi geometrica del discorso populista: nella sua teologia il popolo, con le sue consuetudini e le sue credenze, si fa scorgere non come fonte di legittimità ma come causa di corruzione della verità, che invece discende nella sua purezza dalla parola del Profeta (l’obiettivo dell’eradicazione di ogni residuo idolatrico, come le tombe dei santi berberi o le tradizioni non direttamente discendenti dal Corano, era perseguita ieri dal Fis in Algeria e oggi dal Califfato); se popolo e parola profetica sono in disaccordo, allora è il primo a dover soccombere. Come sappiamo questo dualismo senza compromessi, che produce costantemente un surplus di violenza come proclamazione della parola divina, è estraneo alla tradizione islamica (che fra le altre cose non ha mai previsto lo sterminio dei dhimmi, i non musulmani), e dunque rispetto ad essa deve considerarsi rivoluzionario. Questa natura rivoluzionaria ammantata di volontà di ritorno a un presunto ordine originario e l’uso della violenza come arma politica potrebbero avvicinare il radicalismo islamico ai fascismi occidentali; il suo anti-populismo, al contrario, lo pone al capo opposto rispetto a loro. Ma questo era soltanto un inciso.
Per concludere, laddove mi chiedi come si possa evitare lo scontro tra democrazia rappresentativa e popolo – inteso questa volta, immagino, non come entità organica ma come insieme dei cittadini – non posso che rispondere che senza popolo non c’è democrazia rappresentativa, ma solo post-democrazia nel senso in cui tu applichi questa nozione alla lettura del presente. Io credo che quella che stiamo osservando sia una formidabile sfida all’idea stessa di rappresentanza per come è stata elaborata alla fine del XVIII secolo per ovviare alla crisi dell’Antico regime, se non proprio la sua implosione. L’esaurimento del racconto della sinistra novecentesca ha determinato, a mio avviso, la scomparsa delle élite progressiste per come le abbiamo conosciute – quelle che agivano attraverso i partiti, l’università, il sindacato etc. –, o nel migliore dei casi la loro transustanziazione in camere di compensazione delle misure imposte dagli attori del potere economico. E visto che la pratica della rappresentanza è stata storicamente difesa solo e soltanto da queste élite progressiste, mi pare acclarato che sia necessario elaborare qualche cosa che compensi un tale, enorme deficit di democrazia superando il principio di rappresentanza.
Gli istituti della democrazia partecipativa sono, allo stato attuale, credo, l’unico tragitto percorribile, laddove siano accompagnati da processi di allargamento della cittadinanza e della conoscenza diffusa dei processi e degli interessi in gioco. Con tutti i suoi limiti, come l’Encyclopédie fu uno strumento formidabile della pedagogia politica degli illuministi, forse oggi il nuovo enciclopedismo digitale può essere il motore fondamentale di questo cambio di paradigma. ( segue QUI )
Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.
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Elogio delle minoranze
Le occasioni mancate dell'Italia
Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.
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