lunedì 22 giugno 2015

INTERVISTA A FRANCO MOTTA SU «ELOGIO DELLE MINORANZE»: Parte V :: Sull'identità tra minoranza ed élite - (tratto da Archeologia delle minoranze: Intervista con Franco Motta - uscita prevista Settembre 2015)


Sull'identità tra minoranza ed élite

Obsolete Capitalism :: La scelta teorica di fondo del vostro libro è data, a vostro avviso, dall’identità, a determinate condizioni, di minoranza ed élite. Ora tra minoranza ed elite c'è sicuramente "convenientia" per usare una categoria culturale del XVI secolo, ma i due termini non sono sinonimi: Voi ne fate risuonare l'identità come pura reciprocità. Com’è nata questa scelta? 


Franco Motta :: Il nodo terminologico si è posto certamente già dall’inizio del lavoro, ed era inevitabile che fosse così. Storicamente il lessico della politica ha avuto, e ancora ha a disposizione una significativa rosa di lemmi correlati al campo semantico ascritto al concetto di minoranza attiva, ma essi non sono mai stati esattamente sovrapponibili. Del resto già agli esordi del pensiero politico occidentale la nozione di minoranza è letta nel segno della diade oppositiva, con la coppia aristocrazia/oligarchia che Aristotele associa a un’opposizione valoriale e a un processo di decadimento organico (l’aristocrazia secerne patologicamente l’oligarchia, come la democrazia l’anarchia etc.). E non c’è bisogno di ricordare come questa diade abbia dominato per secoli le categorie politiche europee, fino a quando Gaetano Mosca ha rovesciato i termini mostrando come l’oligarchia sia propria di tutti i regimi di governo, compresi quelli democratici: non la patologia, ma la loro ordinaria fisiologia.

Ciò detto, minoranza ed élite di certo non sono sinonimi, come nemmeno lo sono, rispetto a loro, classe dirigente o ceto dirigente, oppure etichette più in voga oggi quali superclan o superclass. Quando ci siamo trovati a ragionare sul lessico siamo stati quindi costretti a cercare un termine adatto ad abbracciare esperienze così storicamente diverse, seppure strutturalmente affini; e la scelta si è imposta da sé sulla base dei contenuti.

Con che cosa avevamo a che fare, infatti? Non tutti i gruppi considerati nel nostro studio erano stati realmente classe dirigente e nemmeno oligarchia di potere – o meglio non da quando avevano assunto le caratteristiche identificative che abbiamo scelto, come nel caso degli eretici e dei giacobini –, e se è per questo non erano stati nemmeno élite in senso stretto, dal momento che il concetto di élite implica l’esercizio di potere politico, o economico, o ancora religioso o culturale, e quindi il conseguimento di una posizione di forza rispetto al corpo sociale. I gruppi identificati erano élite allo stato embrionale: minoranze – più o meno diffuse, più o meno omogenee – che stavano per diventare élite, cioè per conquistare primati egemonici, e il cui percorso era stato interrotto nella fase ascendente della curva, allorché il processo di condensazione delle forze su cui potevano contare si arrestò prima di raggiungere la soglia critica necessaria a imprimere un nuovo orientamento alla società ambiente.

Il centro del nostro discorso sta infatti nell’assunzione delle potenzialità rivoluzionarie dell’azione delle minoranze di progresso che abbiamo analizzato. Non mi stancherò di ripeterlo: le minoranze di cui abbiamo fatto “l’elogio” pensarono il mutamento in termini di rottura con lo spazio culturale e politico in cui agirono; la loro sconfitta fu la conseguenza della loro incapacità di rendere effettivo tale mutamento, e si configurò come un processo, spesso traumatico, di riassorbimento e neutralizzazione delle loro istanze da parte dei poteri esistenti, cioè delle forze della conservazione.

Lo scontro fra élite progressive ed élite conservatrici – ora, per semplicità, assumo la sinonimia di ‘minoranza’ ed ‘élite’ – è l’orizzonte sul quale si è consumato, e continua a consumarsi, il dramma del meccanismo improduttivo italiano: macchina celibe che produce energie con il solo fine di annichilirle, orologio il cui sessantesimo minuto non fa avanzare la lancetta delle ore – o, in termini più espliciti, massa inerte refrattaria alle spinte del rinnovamento.

Questa prospettiva d’analisi chiama immediatamente in causa un nucleo centrale del nostro studio, anzi, vorrei dire, il suo nucleo fondante. Abbiamo provato a scardinare un meccanismo mentale e lessicale che si è fatto pensiero comune nel XX secolo, in particolare nella seconda metà del XX secolo, come proverò a spiegare sotto. Questo meccanismo mentale si configura come un automatismo, o se preferisci come una ragione apodittica. Io lo definirei senza dubbio nei termini di mistificazione concettuale, vale a dire di inganno: un inganno nel quale ritengo che le élite dominanti del declinare del secolo scorso, che sono ancora, mi pare, quelle dominanti oggi, hanno avuto una responsabilità fondamentale. Questa ragione apodittica si esprime come segue: le élite – politiche, economiche, culturali etc. – perseguono inevitabilmente il loro proprio interesse; l’interesse delle élite è opposto a quello delle maggioranze; le élite, dunque, sono un ostacolo al conseguimento degli interessi propri delle maggioranze. Dunque sono costitutivamente antidemocratiche, conservatrici, egoiste.

Come vedete ho posto la questione nei termini di un sillogismo, per “asciugare” il tema ai suoi costituenti primari. Ora, in termini aristotelici ti direi che questo ragionamento è in realtà un paralogismo, ossia un ragionamento viziato da errore. Perché mai dobbiamo assumere come un dato incontestabile il fatto che l’interesse delle élite sia opposto a quello delle maggioranze (la premessa minore)? Perché mai, in altri termini, non possiamo pensare minoranze morali, capaci di farsi carico degli interessi delle maggioranze, dove per maggioranza intendo l’insieme di coloro che non hanno voce in capitolo, le non-élite, o, detto altrimenti, le classi subalterne?

Il problema, posto in questi termini, si traduce come vedi in un confronto tra pensiero conservatore e pensiero progressista. Asserire che le élite siano inevitabilmente orientate alla chiusura, alla riproduzione dei propri privilegi e, insomma, alla difesa dell’ingiustizia è a mio parere un assioma di segno limpidamente conservatore, poiché nega la perfettibilità dell’uomo, una nozione che, volens nolens, è il grado zero di ogni programma progressista, vorrei dire di ogni filosofia progressista.

Il realismo politico – non il realismo storico machiavelliano, ma il realismo politico, ossia il realismo come orizzonte dell’azione politica – è nemico del mutamento, e lo liquida come utopia, come mera costruzione intellettuale. Il più venerato padre del pensiero conservatore, Edmund Burke, fa ruotare proprio attorno a questo il suo attacco alla Rivoluzione francese e ai diritti dell’uomo. Poiché non possiamo negare, a meno di non voler compiere un esercizio di falsificazione, che ogni società complessa produca nei fatti élite egemoniche, il rifiuto della possibilità di élite progressive si traduce nel rifiuto della plausibilità del progresso stesso. Ma questa è una contraffazione della storia, che in quanto tale risponde in genere a imperativi politici.


Chi ha creato le premesse del movimento operaio e contadino nell’Italia liberale? Possiamo non essere concordi sull’attribuzione dei meriti specifici, ma difficilmente si potrebbe negare che l’azione delle minoranze socialiste e anarchiche – spesso provenienti dall’élite delle professioni – sia stata il motore del processo di pedagogia politica, di pedagogia dei diritti che ha completamente mutato il volto delle masse popolari rendendole protagoniste della loro storia. Un processo non dissimile, anzi probabilmente uno fra gli archetipi di questo modello storico, si presenta un secolo prima sia con l’élite di avvocati e giornalisti che fa nascere l’Assemblea nazionale del 1789 e proclama l’abolizione della feudalità e del sistema giuridico dell’Antico regime, sia con gli “agitatori” che trasformano i sanculotti di Parigi in forza d’urto rivoluzionaria. E per tornare al Novecento, tutto il processo di decolonizzazione è guidato dall’élite terzomondiale che si era formata nelle università europee al pensiero marxista o liberale; ovviamente va riconosciuto che quella stessa élite africana e asiatica, una volta edificata una nuova statualità, si è spesso tramutata in classe politica rapace e autoritaria: ma questo non determina una falsificazione della mia critica di base, semmai impone di interrogarsi sulle ragioni storiche che hanno favorito questo processo decompositivo. Personalmente, infatti, non ho difficoltà a confrontarmi con un’ipotesi di “fisiologia” delle classi di potere, se vogliamo contemplare cicli di crescita, stasi e corruzione, ma nessuna analisi dei fatti umani può comunque prescindere dal filtro della critica storica dei fenomeni. ( segue QUI )

Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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Elogio delle minoranze

Le occasioni mancate dell'Italia 

Elogio delle minoranze
Cosa accomuna gli eretici italiani del Cinquecento e i social-riformisti dell'Italia primo-novecentesca, i galileisti del Seicento e gli igienisti dell'Ottocento, i protagonisti del Triennio giacobino e la famiglia allargata dei liberali di sinistra e progressisti? Innanzitutto l'atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall'antidogmatismo. Infine un amaro destino: duramente sconfitti, costretti ad assistere in vita alla dissoluzione dei loro progetti, sono stati anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae. Massimiliano Panarari e Franco Motta ripercorrono la storia del nostro paese rileggendola attraverso le esperienze di quelle "grandi" minoranze virtuose, che hanno combattuto battaglie di stampo riformatore e per il cambiamento delle condizioni di vita. Un filo rosso attraversa il libro alla ricerca delle energie fondative di quella che avrebbe potuto essere un'altra Italia, i cui esponenti si rivelano oggi più vicini ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell'Occidente sviluppato.

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